Giustizia

Depenalizzazioni

Depenalizzazioni

Da oggi esistono 41 reati in meno. Depenalizzare alcune condotte è un fatto positivo. Tutto sta a capire perché lo si fa e quali sono le conseguenze. L’aborto, ad esempio, pone un problema che non può essere aggirato scrollando le spalle.

Una magistrato che si esprime con proprietà e serietà, Carlo Nordio, ha molte volte ricordato che l’eccesso di velocità sul Canal Grande, in quel di Venezia, è un reato. Sicché, in virtù dell’obbligatorietà dell’azione penale, a lui è toccato sostenere l’accusa in giudizio. Magari l’imputato è colpevole, ma si fatica a supporre che la pena possa essere nulla di più di una multa o del ritiro della patente. Depenalizzare è un bene. In altri casi la faccenda si fa più complessa: il reato di clandestinità, ad esempio, non è stato depenalizzato perché il governo non se l’è sentita di spiegare il perché voleva farlo. Dentro i comuni confini europei ci sono Paesi dove la clandestinità è reato e altri in cui è solo un illecito da perseguirsi in sede civile (da nessuna parte, ovviamente, è consentita). Ciascuno sceglie la via che, nel proprio sistema interno, porta più velocemente al risultato: buttarlo fuori. Da noi non funziona un accidente, né penale né civile, perché nessuna delle due strade è breve ed efficace. Quello è il nostro problema, mentre, invece, preferiamo accapigliarci sulle parole simboliche. E inutili.

Questo è il punto: se depenalizzi dei reati è perché consideri adeguata la sanzione amministrativa, mentre è assurdo depenalizzare perché “tanto i processi vanno in prescrizione”. La seconda è una resa, vile e pericolosa. Così come è una resa, ancor più vile e pericolosa, supporre che si possa rimediare allungando i tempi di prescrizione. La sola soluzione è far funzionare i processi. Se non ci riesci sei un Paese senza giustizia, sicché tutto il resto è superfluo.

In base a quale logica si depenalizza, da oggi, l’aborto praticato fuori dalle regole e dalle sedi consentite? Per trovarsi in quelle condizioni occorre che ricorrano uno dei due casi: 1. è la donna che abortisce a preferire di stare fuori dalle regole; 2. oppure è l’impossibilità di abortire regolarmente a spingerla verso altri. Nel secondo caso (ove dimostrato) si tratta di una colpa del sistema sanitario, ma nel primo di una violazione che si riflette nel danno ai diritti di un soggetto non ancora persona, ma già depositario di garanzie importanti. In base a quale considerazione etica il sopprimerne la speranza di nascita, al di fuori delle regole stabilite, non è da considerarsi un reato? Quesito che non riapre affatto la discussione fra abortisti e antiabortisti, che continuerà sempre (come è giusto che sia), perché si muove tutto dentro la legalizzazione, in determinati tempi e condizioni, dell’aborto. Farsene un baffo e pagare una multa, forse, è troppo ardito.

Tanto più che la cosa accade nel mentre si svolge uno strambo dibattito sui diritti di genitorialità, anche a prescindere dal fatto che non si possa essere genitori (prego consultare il dizionario etimologico). Il che, in quella bislacca teoria dell’amore e della gioia, interamente coniugata in prima persona singolare o, nei momenti di generosità, in prima persona plurale, senza curarsi della terza persona, ridotta a complemento oggetto della mia fregola, inevitabilmente porterà, ove dovesse malauguratamente prendere piede, a regolare i diritti non del nascituro, ma del concependo (mica vorrete dargli gameti geneticamente compromessi?!). Per il concependo, che non esiste in nessun modo, si suppongono diritti, mentre per il nascituro, che esistere esiste, eccome, si paga una multa se lo si sopprime fuori dalla regole. Come se le “regole” fossero solo fastidi e non riflessi di ciò che una civiltà ritiene giusto o sbagliato.

Pubblicato da Libero

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