Giustizia

Macigno Mannino

Macigno Mannino

I processi sono diventati come le elezioni di una volta: non li perde nessuno e tutti cantano vittoria. Nel caso dell’ultimo processo a Calogero Mannino il presupposto per tane insensatezza è il seguente: è stato assolto, ma il fatto sussiste e l’assoluzione è per insufficienza di prove. Del resto, che vi aspettate in un Paese in cui il “rito abbreviato” dura due anni e mezzo ed è solo a un terzo del cammino? Provo a usare la ragione, consapevole di quanto ciò sia demodé.

Il “fatto” sottoposto a processo è il reato contestato, che non è l’avere avviato o intessuto una trattativa fra lo Stato e la mafia, perché quello neanche sarebbe un reato. Il “fatto” consiste nell’avere attentato a un corpo politico. Ipotesi di reato che ben si iscrive nel codice Rocco (1930, quando non solo c’era il fascismo, ma vigeva una diversa idea dello Stato). La sentenza dice che l’imputato Mannino non ha commesso quel fatto. Leggeremo le motivazioni, ma ricordo che la “trattativa” sarebbe il presupposto storico di quel reato e che lo stesso Mannino, a chi gli chiede se ci sia mai stata, risponde: “questo non lo so”. Inoltre, è pendente un altro processo, con diversi imputati, che muove da quella ricostruzione della procura, sicché sarebbe stato ardito volere dalla sentenza abbreviata (si fa per dire) la soluzione del processo che deve ancora iniziare.

Eppure questa sentenza influisce pesantemente sul secondo e distinto processo, proprio a causa delle tesi sostenute dall’accusa. Se imputi a servitori dello Stato di averne attentato all’integrità e di averlo fatto per dare seguito alla richiesta di Mannino, il quale temendo per la propria vita vuole intavolare una trattativa con i potenziali assassini, è evidente che se Mannino non ha commesso quel fatto il resto vien giù a pezzi.

La cosa grottesca è il richiamo all’“insufficienza di prove”. Per condannare una persona ci vogliono le prove e, diceva il vecchio codice, si doveva assolverla con la formula “per insufficienza”, ove difettino. Tale principio è stato considerato (giustamente) incompatibile con la Costituzione, perché il cittadino sottoposto a giudizio è coperto dalla presunzione d’innocenza, è già innocente, fin quando non si dimostra che sia colpevole. Se il fatto non sussiste, se non lo ha commesso o se chi lo accusa non è riuscito a dimostrare la sua responsabilità (perché la prova “manca, è insufficiente o è contraddittoria”, tutte e tre le cose assieme e senza distinzione), la sua innocenza resta intonsa. Ecco perché è grottesco leggere, da tante parti, che il secondo comma dell’articolo 530 del codice di procedura penale “ricalca” o “equivale” alla vecchia “insufficienza di prove”. Manco per niente. E poi, scusate, ma se l’accusa non riesce a dimostrare che Mannino avviò la trattativa, mi spiegate come si fa a dimostrare che altri la condussero su sua sollecitazione?

La risposta è logicamente impossibile, ma proceduralmente percorribile. Perché nel nostro sistema il processo è uno solo, articolato in tre gradi di giudizio. E’ una sciocchezza, che andrebbe riformata. Tanto più che se ti assolvono alcuni giudici è irrazionale che altri ti condannino “oltre ogni ragionevole dubbio”. Davanti a un’assoluzione il dubbio è il minimo, a meno che non si arrestino i primi giudici per complicità. Ma restando dove ci troviamo Mannino non è stato assolto, solo non è stato fin qui condannato. La procura ricorre avverso la prima assoluzione e la materia resta sospesa fin quando non si conclude il ciclo, nel frattempo si processano i complici, sulla base del presupposto già bocciato. Con grandioso spreco di tempo e soldi.

Dopo l’assoluzione, comprensibilmente, Mannino era contento. In quello stato ha detto, riferendosi al pm, Nino Di Matteo (ma non solo): “per colpa della sua ostinazione, per la strage di via D’Amelio, ha fatto condannare persone innocenti”. Su questo sbaglia, Mannino. Gli innocenti furono condannati dai giudici, in tre gradi di giudizio. Una disfatta, per la giustizia, la cui responsabilità pesa sulle spalle della procura meno che su quelle di altri. Ciò perché il pm, al di là di tante inutili ipocrisie, è un accusatore. La vicenda della procura che chiede al Ris di confezionare un filmato per la stampa ne è solo l’ultima conferma. Gli accusatori accusano, non possiamo farne loro colpa. Per questo non devono essere colleghi di chi giudica e per questo, se continuano ad accusare gente innocente, devono cambiare mestiere.

La tragedia collettiva, infine, è che si replica all’infinito lo schema del processo a Giulio Andreotti: volendo trasformare le accuse politiche in imputazioni e le condotte disdicevoli in reati, cercando nelle sentenze le fonti della storia, in mancanza di quelle si resta allocchiti e incapaci di raccontare la nostra vicenda pubblica senza cadere nelle zuccherose amnesie o nelle latranti vendette. Così attentando, ma veramente, alla nostra vita politica.

Pubblicato da Libero

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