Politica

Il cimento

Chiunque governi, con qualsiasi maggioranza, finite le poche ore dei festeggiamenti e delle chiacchiere inutili sulle novità e sui salti generazionali (Letta e Renzi, del resto, sono quarantenni che si sono accoltellati), dovrà misurarsi con il problema numero uno: l’economia. Il che comporta adeguata conoscenza della realtà, idee precise su cosa fare, velocità nel metterle in atto. Qualche dato aiuta a capire i contorni della sfida e le ricette adottabili.

Cominciamo con le buone notizie: secondo i calcoli della Cgia di Mestre, già nel 2013 le nostre aziende che esportano sono riuscite a tornare ai livelli pre-crisi, pre-2008. Su quel fronte la recessione era già superata da tempo, ora risulta superato anche il rovinoso rinculo. Quei campioni dell’imprenditoria hanno esportato, nei primi nove mesi del 2013, per 289.5 miliardi, contro i 282.2 dello stesso periodo 2008. Molto bene. Si tratta del 4.3% delle aziende italiane, che occupano 4.615.000 persone, il 27.5% del totale. Fra queste le piccole e medie (quindi con meno di 250 dipendenti) totalizzano il 53.9% del fatturato. Il nostro Paese resta ricco e forte grazie ai combattenti medi e piccoli, che fanno meno notizia, ma più soldi. Quelle esportazioni sono state piazzate nonostante un cambio non favorevole e con un accesso al credito più caro, rispetto a quello di altri concorrenti europei. Ciò dimostra che abbiamo vinto sul terreno della qualità e dell’innovazione. E questa è la prima cosa che un buon governo deve fare: studiare il modello vincente di chi lavora senza avere rappresentanza politica e istituzionale. In quel mondo c’è la formula da cui prendere esempio.

Poi ci sono le notizie cattive: il 2013 si è chiuso con un calo superiore al previsto (dal governo), ovvero con il prodotto interno lordo che si contrare di un ulteriore 1.9. La ripresa in corso d’anno, di cui favoleggiava il governo e di cui strologava il ministro dell’economia, ha portato a un quarto trimestre con il segno positivo, ma solo per lo 0.1. Niente. Anche per l’anno in corso i segni di ripresa possono essere colti solo con il sismografo. I governi-Mercalli, quelli che rilevano l’esistente senza influirvi, non servono a nulla. Sono peggio degli aruspici, perché ti mettono in conto l’animale con le cui viscere pretendono di divinare il futuro.

Abbiamo già pubblicato (mercoledì) un grafico che confermava la nostra lunga perdita di competitività, descrivendo la divaricazione fra noi e la Spagna, a loro vantaggio, fra il 2008 e il 2009. La differenza fra noi e loro sta nel fatto che loro hanno votato, insediato un governo democratico e chiesto aiuto per le banche.

La serie storica degli interessi sul debito pubblico ci dice che nel periodo 1997-2009 abbiamo pagato 38 punti di pil in più, rispetto alla Francia e alla Germania. Se non avessimo avuto quel debito mostruoso non avremmo perso terreno. Dal 2009 le cose sono andate sempre peggio, perché gli attacchi speculativi hanno fatto lievitare il costo del debito, che è costantemente cresciuto anche in valore assoluto, dimostrando quanto sia fallimentare la politica del tassare per pagare. Ci si impoverisce e non si risolve nessun problema. Chi guarda lo spread e non considera il resto è destinato a confondere la breve bonaccia con l’approdo lacustre.

Chiunque governi, con qualsiasi maggioranza, è atteso a quella prova: o abbatte il debito, mediante dismissioni, riducendone il costo, e taglia la spesa pubblica corrente, restituendo fiato agli italiani, traducendo quei risparmi in alleggerimenti fiscali, così facendo ripartire la domanda interna e rimettendo in moto un mercato che conserva vitalità, come dimostrano i dati sulle esportazioni, oppure chi è sano sarà sempre meno italiano (investendo all’estero) e chi è residente sarà sempre più depredato, fino al limite della rivolta. Sono scelte dolorose? No, sono scelte goduriose, a patto di sapere spiegare perché e come preludono al meglio. Il vero dolore ce lo siamo procurati e ce lo procureremo non facendole.

Chiunque governi, con qualsiasi maggioranza, farà la fine dei governi di centro destra e di centro sinistra, che incapaci di scelte profonde sono stati distrutti da tensioni e fratture superficiali. Inevitabilmente innescate dalla resistenza al cambiamento. Mentre i governi presidenziali, Molti e Letta, hanno proprio sbagliato formula. La porta d’uscita dalla lunghissima crisi, che ha figliato il marasma politico degli ultimi anni, c’è. Ma se anziché imboccarla si prova a passarle distante si subisce la sorte già toccata ad altri, con la testa rotta contro al muro.

Pubblicato da Libero

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