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Divario

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Comunque vadano le cose si sarà prodotto un divario, verificata una divaricazione. Non è poca cosa mettere in dubbio l’assicurazione di reciproca difesa (ricordo ancora che, dal 1949 a oggi, una sola volta è stata attivata la chiamata per un attacco subìto: lo fecero gli Stati Uniti e rispondemmo, con i Paesi Nato, senza batter ciglio). Ha ragione chi ricorda che la nostra difesa – fin qui – necessita del contributo americano, ma avrebbe torto se utilizzasse questo argomento per far finta di non avere capito quel che è stato detto. Non è poca cosa nemmeno il subire dei dazi punitivi, fuori da ogni logica di mercato, fra Paesi non soltanto alleati ma legati da accordi commerciali e dalla reciproca convenienza e soddisfazione dei consumatori. Comunque vadano le cose, il solo parlarne è già un fatto. Ineludibile e destinato a produrre conseguenze.

Nel creare un divario l’amministrazione statunitense spera di produrne uno fra gli europei e fra loro e gli altri Paesi amici e alleati a loro volta (irragionevolmente) colpiti. Già il solo fatto che si discuta se reagire o negoziare potrebbe essere letto come segno di una disunione europea, ma sarebbe cosa assai superficiale. Una spaccatura non conviene a nessuno e meno che mai a noi italiani, posto che il nostro primo mercato è proprio quello dell’Unione Europea. Le cui regole sono servite non soltanto ad alimentare la retorica qualunquista ma anche ad arricchirci molto e far crescere i nostri produttori, oltre che rendere più sicuri i consumatori. Reagire o negoziare non sono in alternativa, tanto più che se non si mostra capacità di reazione non si ha alcuna speranza di negoziare alcunché. Forse qualcuno può far credere che ci sarebbero maggiori spazi se ci si presentasse da soli, portando in dote l’avere rotto l’unità europea, ma rompere quel che rende ricchi, divorziare dal mercato maggiore senza avere nessuna sicurezza di migliore vita in quello minore è una scelta che non si compie neanche in disperazione.

Può darsi che dei controdazi siano dimostrativamente necessari, ma è difficile credere che siano risolutivi. Far pagare di più il Bourbon può essere un brindisi al gioco americano; far pagare maggiormente i servizi che ci sono utili sarebbe per gli Usa più doloroso, ma per noi anche più costoso. La reazione forte deve consistere nell’apertura e facilitazione di nuovi mercati, sull’esempio del Ceta e del Mercosur, che saranno utili comunque vada. Ciò vuol dire che l’interesse del nostro mondo produttivo e quello generale vanno in direzione opposta alla protezione di operatori minori, che da soli non sanno stare sui mercati. I piccoli corporativismi saranno ripresi in considerazione dopo, passata questa stagione.

L’altra reazione efficace consiste nel dar subito seguito a un vero mercato europeo dei capitali, con operatori di dimensioni continentali, ponendo fine ai dialetti bancari e finanziari. Soltanto questo, non certo i predicozzi, è capace di rendere conveniente e remunerativo investire i risparmi nel nostro mercato, togliendo agli americani quel che per loro è vitale: l’afflusso continuo e massiccio dei capitali europei, indirizzati al sostegno dei loro titoli azionari e al finanziamento del loro debito pubblico. Che cresce perché gli americani vivono al di sopra dei loro mezzi e votano per chi promette che questo possa avvenire sempre di più.

Mettere i dazi sulle merci europee e volere che i loro capitali accorrano al sostegno dei consumi statunitensi è contraddittorio. Come lo è indicare (giustamente) la necessità di una maggiore spesa per la difesa e poi provare a sottrarre ricchezza.

Negoziare significa questo: mettere in fila interessi e fatti e mostrare quanto la politica dei dazi indebolisca tutti senza rafforzare nessuno, fra gli occidentali. Non significa cercare né lo scontro né lo sconto, perché quello si chiama in modo diverso: piatire. E segnerebbe un altro divario, quello fra la realtà e l’illusione di chi crede sia dignitoso e fruttuoso mettersi a piatire.

Davide Giacalone, La Ragione 3 aprile 2025

 

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