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Inchiodati

Inchiodati

Coltivare idee politiche diverse è salutare e non serve sempre l’unità nazionale. Il guaio è restare inchiodati a una recita delle contrapposizioni, che delle differenti idee è una parodia.

Prendiamo le due partite oggi più rilevanti: l’aumento delle spese per la difesa e il negoziato sui dazi che danneggiano i commerci. Sul primo punto sappiamo tutti che la spesa aumenterà considerevolmente. Non raggiungerà e men che meno si stabilizzerà al 5% del Prodotto interno lordo – nel qual caso avremmo non la difesa della sovranità e del mercato europei, ma una proiezione di potenza capace di arrivare ovunque e produrre un brivido a chi conosce un po’ di storia – non di meno crescerà notevolmente. Sappiamo tutti che è così e che è anche giusto. Lo sa chi governa e ha appena finito di condividerlo. Lo sa il Partito democratico, una cui pattuglia di parlamentari europei ha votato a favore e che se solo rimetterà piede al governo governerà a sua volta questa spesa in crescita. Gli uni e gli altri se la devono vedere con le coltellate alla schiena, portate da presunti alleati che si sono scoperti pacifalsi e si sono rammentati d’essere ammiratori di Putin. Lo sappiamo, dunque, ma sappiamo anche che la partita da giocare non è sul livello della spesa ma sulla sua destinazione e sulla partecipazione industriale alla crescita della difesa.

Il secondo punto, quello dei dazi, può vedere delle differenziazioni solo relativamente ai toni: chi governa e si è prodotto in attestati di fede trumpiana è in imbarazzo per questo attacco ai nostri interessi; chi si oppone reclama risposte vivaci e nette, che se governasse non darebbe, anche senza mai essersi proclamato trumpiano. Per il resto, gli uni e gli altri sanno che a negoziare sarà soltanto la Commissione europea (di cui ieri al Consiglio europeo), che è meglio spuntare i più bassi tassi possibili, spuntati i quali saranno comunque peggiori della condizione precedente questa insulsa campagna americana. Lo sappiamo e potremmo ben essere conseguenti nel valutare il valore politico di quella condivisione. Ma non si sa farlo, perché inchiodati.

Oramai la recita è: una coalizione contro l’altra, rette entrambe dal contrapporsi all’altra. Vincente quella che si divide di meno il giorno delle elezioni. Un falso bipolarismo, che non offre idee e ricette diverse ma uguale risentimento avverso al prevalere dell’altro. Un prodotto creato per offrire scelta all’elettore e stabilità al governo e che ha invece generato leggi che consentono all’elettore di scegliere sempre meno mentre i governanti, che dal 1948 al 1992 non avevano mai perso (sommati) le elezioni, dal 1994 (alleati saldamente) non le hanno mai vinte. Un prodigio.

Ma con un capovolgimento: l’invenzione di Berlusconi, nel 1994, rendeva utilizzabili i voti degli estremisti per rafforzare i moderati di entrambi gli schieramenti (difatti dall’altra parte vinceva Prodi), mentre oggi i determinanti voti estremisti hanno catturato e fatto prigionieri i centristi, che contano sempre meno. Da ambo le parti. Epperò sarebbero i soli capaci di condividere una difesa razionale degli interessi nazionali, proprio perché non fanno finta di non sapere quel che all’inizio si accennava. Ebbene: se non trovano il coraggio di liberarsi saranno cancellati. Meritandolo, per ignavia.

Si osservi un punto: quel sistema disfunzionale punisce le maggioranze quando calcano il terreno delle riforme costituzionali, perché il seguente referendum consente di bocciarle senza che cambi nulla. Per questo la destra di oggi rallenta, per scongiurare l’ipotesi che un referendum sul premierato possa tenersi prima delle elezioni. Renzi azzardò e perse. Ecco una possibile liberazione: prima delle elezioni si vari una sede costituente, da eleggere assieme al Parlamento, con tempo e ruoli limitati e condivisi. Lì si potrà parlare senza straparlare. C’è una proposta della Fondazione Einaudi, che Fratelli d’Italia disse di condividere (Donzelli) e Azione oggi condivide (Calenda). Almeno si schioda.

Davide Giacalone, La Ragione 27 giugno 20

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