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Scontato

Scontato

Dare incentivi a chi crea occupazione sembra la cosa più bella e giusta del mondo, ma può avere effetti perversi. Le buone intenzioni non bastano a ottenere buoni risultati. Specialmente quando le buone intenzioni nascono già male, con sconti che genereranno un effetto scontato.

I più ferrati ricorderanno il decreto legge denominato “Coesione”, risalente al maggio del 2024. L’urgenza era tale che c’è voluto un anno per le relative attuazioni. Già questo è un guasto profondo, perché a leggere il testo di un decreto legge devo avere la sicurezza (costituzionalmente assicurata) che sia immediatamente vigente. Invece capita che sia sì vigente il testo, ma anche del tutto inefficace senza decreti e passaggi attuativi che sono di là da venire. Quindi l’urgenza consiste soltanto nel dire di averlo prima varato e poi convertito, perché in quanto all’efficacia ci si può mettere comodi e attendere con rassegnazione.

Fatto è che, dopo un anno, dal maggio scorso è possibile che un datore di lavoro riceva sconti significativi per i nuovi posti di lavoro creati. Si può arrivare a 650 euro mensili di minori costi, diciamo di minore cuneo fiscale. Non è poco. Lasciamo da parte il fatto che quei minori versamenti non intaccano i diritti del lavoratore – naturalmente – quindi generano maggiori costi futuri a carico di altri. Lasciamo perdere quel che non si farà lasciar perdere, occupiamoci soltanto del presente.

Per avere lo sconto maggiore, quindi quei 650 euro, si deve rispondere a determinate condizioni. Faccio solo due esempi: 1. assumere a tempo pieno una donna «svantaggiata» (che brutta immagine), vale a dire priva di un lavoro regolare da almeno 6 mesi e residente al Sud, oppure da impiegare in settori ad alta disparità di genere; 2. assumere una persona con meno di 35 anni e farlo presso una sede produttiva che si trovi in Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria o Sardegna.

Cosa c’è di male in queste cose? C’è che, anziché cercare il lavoratore più idoneo all’attività che serve all’impresa produttiva, si cercherà quello più idoneo a ricevere gli sconti utili al ragioniere che tiene i conti dei costi del personale. In questo modo potrò anche creare qualche posto di lavoro in più – rispetto a quelli che si sarebbero creati da soli, per ragioni sanamente produttive – ma spingerò gli operatori economici non ad assetti strutturalmente vincenti, ma a sistemazioni temporaneamente convenienti. Senza contare l’azienda che si trova nelle Marche, tenuta a contribuire al finanziamento di un sistema che le antepone quelli che si trovano a pochi chilometri di distanza, dall’altra parte del confine regionale. Alla faccia del merito e senza attenzione alla produttività, quindi con il rischio di svantaggiare chi è più capace di creare ricchezza.

Ma non è finita, perché – per tenere in ordine l’amministrazione di questi criteri per reclutare il personale – l’azienda deve necessariamente dedicare lavoro e denaro a un apposito settore, in modo da conoscere tutto il labirinto di questa e delle altre normative ed essere pronta, in caso di controlli, a dimostrare di non avere barato. Alla faccia della deburocratizzazione: questa roba fa crescere a dismisura gli adempimenti necessari e, assieme alla burocrazia, fa crescere le pieghe nelle quali si annidano i profittatori e i lestofanti, di sicuro meno propensi a tenere la documentazione del raggiro operato.

La giungla normativa e la sua eterogeneità territoriale sono quello che Draghi ha chiamato «dazi europei». Siccome qualche allocco ha creduto che stesse parlando dell’esistenza di inesistenti dazi fra un Paese e l’altro, ecco la bella occasione per presentargli dei dazi italiani: non li hanno messi fra le Marche e l’Abruzzo, ma si è creato un diverso regime che comporta uno squilibrio nell’operare le scelte.

In attesa del prossimo governo che annuncerà di dar fuoco alle troppe leggi, si potrebbe smetterla di produrre quelle che, con le migliori intenzioni, alimentano la carta che incarta l’Italia.

Davide Giacalone, La Ragione 16 luglio 2025

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