A Gaza si è tutti prigionieri. Anche noi che ce ne sentiamo coinvolti, ma non abbiamo la forza di alcun ruolo. Lo sono i palestinesi e lo sono gli israeliani. Ed è forse questa prigionia, questo destino di guerra eterna, che potrebbe aiutare a scorgere il corridoio da imboccare per allontanarsi dalla dannata condizione. Vediamo le tre celle e proviamo a intravedere il corridoio.
Nella nostra cella di democratici occidentali diciamo cose diverse e ugualmente inutili. Diciamo che si può riconoscere uno Stato che non solo non esiste, ma se esistesse sarebbe in guerra civile. Ma diciamo anche che lo riconosceremmo se non ci fosse più Hamas, che è un nonsenso: è Israele che sta provando l’impossibile sradicamento armato, ma noi gli chiediamo di fermarsi. Siamo pronti a mandare aiuti umanitari, ma facciamo finta di non sapere che con quelli abbiamo lungamente fortificato il potere di Hamas sui gazawi, accrescendo il male.
Nella cella palestinese è chiaro a molti che il nemico dei gazawi è Hamas, che ne versa il sangue e ne umilia la vita pur di puntare alla cancellazione di Israele. Si parla di riconoscere lo Stato palestinese, ma ci si dimentica che Hamas non riconosce quello israeliano. Eppure Hamas ha gestito il pane e la vita dei gazawi – con la nostra e israeliana complicità – mentre l’alternativa neanche sarebbe stato un partito dell’Autorità palestinese che si distinse per corruzione. E se a qualcuno, in quel mondo, venisse in mente di negoziare con Israele (come avvenne in passato) sarebbe surclassato da estremisti più puri e più finanziati da chi punta alla guerra eterna. Oggi gli iraniani, meno smodatamente Paesi come il Qatar, ieri altri. Volere la Palestina libera “dal fiume al mare” significa volere guerra per il tempo a venire.
Nella cella israeliana la convivenza con il nemico che ti vuole cancellare, gestita anche con consapevole cinismo, è stata demolita il 7 ottobre 2023 per volontà di Hamas (ovvero iraniana). Vediamo tutti che l’agire di Netanyahu non può portare a nessun equilibrio e macchia Israele, i suoi amici (fra cui noi) e gli ebrei di colpe che peseranno nei decenni. Vediamo che la supremazia militare è battuta dalla capacità propagandistica di chi reclamizza la morte infantile e la fame. Sappiamo inorridire, ma non sappiamo indicare l’alternativa. E quando le pressioni internazionali frenano Israele ecco che spuntano le foto degli ostaggi torturati, pubblicate apposta perché la reazione sia ancora più cieca e feroce. Volere la grande Israele, dal fiume al mare, significa volere la guerra eterna. Come guerra fu in passato e come il governo ancora ieri ha promesso.
Quanto è buio il corridoio, neanche si sa se abbia uno sbocco. Però sappiamo che in quelle celle si può soltanto crepare. Ma… Ma Israele resta una democrazia e le cose al suo interno si muovono: militari che vedono il costo della carneficina, intelligence che non vede quale sia lo sbocco, cittadini che protestano, coscienze che si torcono. La consapevolezza che votare per partiti sempre più fanatici e misticamente bestemmiatori non sia l’orgoglio dell’identità, ma il suo snaturamento.
Nel mondo arabo che vuole crescere, il riconoscimento di Israele non è un problema: lo è neutralizzare gli sciiti iraniani (che non sono arabi) senza tirarsi addosso blasfeme accuse di blasfemia. Hamas è il nemico e volentieri cancellerebbero quelle schiere di sanguinari terroristi. L’esempio di Egitto e Giordania è più allettante. Qualche cosa si muove in Siria. In Libano sembra si siano decisi a reprimere Hezbollah.
In casa nostra accapigliarsi sul riconoscimento significa riconoscere di non contare niente, mentre le relazioni economiche e politiche potrebbero essere messe in sincrono con il bisogno di spezzare le catene dell’odio. Anche per evitare che maggiori spazi siano ripresi da un Putin perdente anche in quell’area.
Ci sono molte difficoltà, ma anche molte convenienze a imboccare il corridoio. Si potrebbe fare presto. Anche camminando con compagnie che non entusiasmano.
Davide Giacalone, La Ragione 8 agosto 2025