Il cielo della legge di bilancio è oscuro, s’intravedono numeri e intenzioni che sono in contraddizione. La pressione fiscale sale e la crescita scema rispetto alla già asfittica previsione, sicché lo scuro delle nuvole si rischiara nel vuoto all’orizzonte. Ma la cosa non crea troppo affanno al governo, il programma delle prossime settimane è spiazzante: il 22 ottobre la separazione delle carriere dei magistrati sarà approvata in via definita, quindi Pd (in contraddizione con sé stesso) e Cinque Stelle (in coerenza manettara) si dedicheranno alla convocazione del referendum; quando questi clamori si saranno placati ci saranno le luminarie di Natale e il bilancio sarà approvato con il voto di fiducia; una volta entrati nel 2026 ci sarà la campagna referendaria. Pochi maniaci s’occuperanno di fisco e investimenti, gli altri continueranno a dire che c’è bisogno di sviluppo, equità e solidarietà. Cioè a non dire niente.
Il prossimo sarà l’ultimo anno prima delle elezioni e il governo aveva promesso la flat tax entro la fine della legislatura. Non ci sarà mai, ma è singolare che nessuno ne chieda conto. In compenso la collezione fiscale autunno inverno vede sfilare il favore verso il ceto medio, ma quel che si vede son ciabatte e braghe corte. Ad esempio si prevede che l’aliquota Irpef per i redditi lordi fino a 28mila euro annui resti al 23%, mentre quella da 28 a 50mila dovrebbe estendersi a 60mila e scendere dal 35 al 33%. Sarebbe il miglior trattamento per il ceto medio. Considerato il gettito reale della prima fascia si potrebbe far salire l’area di non tassazione, tanto si tratta di pochi euro. Mentre la mancanza di fondi per finanziare la riduzione allo scaglione successivo potrebbe essere alleviata mediante la sterilizzazione dello sgravio qualora si superino i 60mila. Comporta che nella componente da 28 a 60mila un contribuente che dichiari 70mila euro lordi l’anno non avrebbe alcun beneficio. Ciò significa che si considera ceto medio quello che guadagna fino a 60mila e oltre quella soglia si è considerati ricchi. Non si sa se sia una presa in giro o un incoraggiamento.
Ma attenzione, perché in quell’area di reddito si trovano anche 3,5 milioni di pensionati, che hanno una rendita superiore a quattro volte il minimo, quindi almeno 2.500 euro lordi mensili. Tutti costoro sono considerati ricchi, sicché non meritevoli di pieno o alcun adeguamento all’inflazione. Che pure era previsto nei patti iniziali, che sono ritenuti “diritti acquisiti” solo per gli altri. Ciò ha comportato una perdita del 25% del potere d’acquisto in 30 anni, mentre in 10 la perdita può arrivare fino a 115mila euro. Calcoli fatti da Alberto Brambilla e Itinerari previdenziali, con alle spalle molti altri calcoli azzeccati. Considerato che quei pensionati versano il 46,33% dell’intero gettito Irpef di categoria e tenuto presente che chi non ha mai versato contributi o ne ha versati pochissimi ha una pensione al minimo e, quindi, sempre regolarmente adeguata all’inflazione, questi cittadini, che potremmo definire ceto medio, non è che non ricevano benefici è che incassano malefici.
E se le pensioni regalate (in tutto o in parte) sono un agguato intergenerazionale, a carico dei più giovani, il non adeguamento di quelle basate sui contributi versati sono una beffa fra pensionati, dimostrandosi un buon affare il non avere versato contributi. Quindi un danno al ceto medio. Per forza che fra i 408 miliardi di tasse evase e considerate irrecuperabili ve ne sono 38 destinati all’Inps. Ma questo non turba chi chiede di cancellare i debiti e aumentare i pensionamenti, tanto sono numeri scritti nel cielo e incassabili solo alle elezioni.
Così chi governa andrà avanti a dire che si deve far scendere la pressione fiscale, che invece sale, e chi si oppone continuerà a chiedere salari più alti e tartassare i ricchi. Sarebbe troppo chiedere loro di verificare che nelle dichiarazioni Irpef non v’è nulla di quel che vanno strologando, non rientra nei loro tornaconti.
Davide Giacalone, La Ragione 21 settembre 2025
