Due record in due giorni: l’occupazione più alta e lo spread più basso (dal 2008). Di che essere orgogliosi. Ma anche di che essere preoccupati, se si perde il senso della realtà e si crede sul serio a quel che si dice.
A ottobre il tasso di occupazione, certifica l’Istat, è salito al 62,7%. Con 224mila occupati in più. Il lato splendente è evidente, quelli oscuri sono diversi. Intanto l’occupazione era prima cresciuta meno di quanto l’Istat stesso aveva previsto, sicché l’aumento brilla meno di quel che sembra. Senza dimenticare che quel record positivo del 62,7% è anche il record negativo in Unione Europea, restando l’Italia il Paese in cui la popolazione attiva lavora di meno. È un dato talmente brutto (e consolidato nel tempo) che vien quasi voglia di sperare che molti lavorino in nero. Sarebbe una sconfitta per lo Stato ma almeno non una disfatta collettiva, con la rassegnazione alla nullafacenza mantenuta.
Si aggiunga che la crescita dell’occupazione non va di pari passo con la più lenta crescita della produttività, il che indica la creazione di posti di lavoro non tanto ‘precari’ ma a basso valore aggiunto. Quel tipo di lavori possono anche essere stabili, ma saranno sempre a basso salario e basso contributo alla crescita. Non proprio l’ideale. Infine, anche nel registrare la crescita dell’occupazione si deve constatare che la fascia d’età fra i 25 e i 34 anni resta fuori. Per ragioni demografiche sono sempre di meno e si ritrovano pure sempre di più fuori dal mercato del lavoro. Sarà bene studiare con attenzione i dati, prima di stappare le bollicine.
Qui si è scritto spesso e con piacere che una parte significativa del merito per il calo dello spread – vale a dire del differenziale fra il tasso d’interesse che si paga sul nostro debito pubblico e quello che si paga in Germania – è del governo. In particolare dell’asse Giorgetti-Meloni. Entrambi hanno meritoriamente fatto il contrario di quel che dicevano. E si sono ricreduti anche sullo spread: ieri sulfureo strumento della speculazione, oggi riconoscimento dei loro meriti. Va bene così, ma la medaglia merita d’essere guardata non frettolosamente.
La riduzione del differenziale (che pure rimane) fa scendere il nostro svantaggio competitivo. Molto bene. Ma non è sceso perché noi si paghi meno e con minori tassi d’interesse (purtroppo paghiamo di più e con più alti tassi d’interesse): è successo perché sono saliti i tassi dei tedeschi. Per non dire dei francesi, che ci pareggiano. E i tassi tedeschi sono cresciuti non perché si speculi sui crauti, ma perché stanno praticando una politica espansiva che farà crescere il loro (fin qui) assai contenuto debito pubblico. Ciò significa che, ove non commettano errori e non buttino i quattrini in roba tipo i nostri bonus, ce li ritroveremo in forte crescita nei tempi a venire. Mentre noi da una parte non potremo fare altrettanto, perché già oberati da un debito pubblico grande più del doppio di quello tedesco, e dall’altra stiamo incassando pacchi di quattrini europei per il Pnrr e anziché contabilizzare la crescita festeggiamo la non recessione.
Pagavamo meno di interessi in stagioni in cui lo spread era più alto. E se è vero che influisce il costo del denaro, è non meno vero che non abbiamo approfittato dei tassi bassi per ridurre il debito e abbiamo anzi fatto il contrario. Lo abbiamo fatto dicendo di non volere strozzare la crescita, che intanto si strangolava proprio perché il debito la soffocava e i soldi li si spendeva per sovvenzionare e ristorare, anziché per investire e crescere.
Per rompere questa morta gora in cui si festeggiano i record sbagliati, serve la forza di chi non prova a galleggiare ma a prendere il largo. La forza di guardare lontano. E la fine della legislatura non pare proprio il tempo più propizio. Speriamo che, come al solito, sia un pezzo del sistema produttivo ad agganciare i motori che trainano, per darsi record da ricordarsi. Sbandierando e festeggiando meno, ma lavorando e realizzando di più.
Davide Giacalone, La Ragione 5 dicembre 2025
