Giustizia

Scotti dica di più

Scotti dica di più

Gli anni che vanno da 1992 al 1994, vale a dire dalle ultime elezioni politiche regolari alle prime della così detta seconda Repubblica, sono ancora coperti dalla melma della bugia, del non detto, del rimosso, dell’occultato. I presunti storici che si sono fin qui cimentati (alla Ginzborg, per intenderci) hanno partorito opuscoletti propagandistici d’infantile conformismo.

Più interessanti le testimonianze e le memorie, tanto quelle provenienti dalla sinistra che fu comunista, o dallo schieramento politico dell’allora maggioranza, quanto quelle vergate da magistrati che furono in “prima linea”. Da quelle memorie si riparte, essendo ancora presto perché parlino le carte.

Ora è Vincenzo Scotti a prendere la parola (“Un irregolare nel Palazzo”, Edizioni Memori), con un libro estremamente interessante, che, però, lascia insoddisfatti in uno dei passaggi cardine. In un certo senso l’autore rivendica il suo sacrosanto diritto di restare democristiano.

Il libro va letto tutto, perché l’orgogliosa ricostruzione di una vita politica e la rilettura del ruolo della Democrazia Cristiana, sono elementi utilissimi alla comprensione di un uomo e di una storia che è parte della nostra storia. Quindi mi scuso se mi soffermo solo su un punto. Scotti cerca di inquadrare il clima che accompagnò la fine di un sistema politico, così che chi vinse le elezioni nel 1992 non si trovava più sulla scheda elettorale nel 1994 (concetto, questo, sul quale non si rifletterà mai abbastanza). Scrive Scotti che in quei frangenti: “elementi di verità ed interessate esagerazioni venivano a mescolarsi e su di loro pesava la volontà delle forze del nostro capitalismo familiare, questa volta d’intesa con il capitalismo transnazionale, non solo di eliminare tanti lacci e laccioli di un interventismo pubblico non in linea con le tendenze del mercato globale, ma anche di impadronirsi a buon mercato, dello sterminato patrimonio di imprese e di beni di proprietà pubblica”. Questa affermazione si trova all’inizio del libro, ma non viene più ripresa né approfondita. Peccato, anche perché Scotti, con ogni probabilità, ha altre cose da dire.

Ancora più assordante è quel che tace più oltre, tirando direttamente in ballo Vincenzo Parisi, allora capo del Dipartimento di Pubblica Sicurezza e capo della Polizia. Passaggio decisivo, perché più fonti attribuiscono a Parisi quel che Scotti appena accenna: “Parisi aveva più di una percezione che fosse in atto un progetto di destabilizzazione dei poteri politici e che i partiti democratici erano ormai estremamente deboli mentre forze sostitutve e alternative erano già scese in campo. Il generale Pisani (allora capo di Stato Maggiore dei Carabinieri, n.d.r.) giunse a dire: ?Tra un anno voi non ci sarete più'”. Ci si rende conto di quel che significa? I vertici della sicurezza democratica (Scotti era, allora, ministro degli Interni) avevano la cognizione di un disegno teso a scardinare l’ordine politico e statuale. Ma Scotti non ci dice niente di più, salvo domandarsi, assai velenosamente: “come mai all’inizio del ’92, la mafia riuscì ad alzare lo scontro con lo Stato, mentre iniziava la ?rivoluzione giudiziaria’?”. E qui aggiungo io una cosa, che Scotti tralascia: l’attacco della mafia si era già fatto sentire con omicidi come quello di Scopelliti e Lima, ma raggiunse il calor bianco con l’eliminazione di Giovanni Falcone. Falcone, allora avversato dalla sinistra giudiziaria, guidata da Luciano Violante, attaccato pubblicamente da Leoluca Orlando, era anche alla vigilia di un incontro con il procuratore russo che indagava sui fondi distratti da uomini del Kgb, il servizio segreto sovietico. Era, insomma, sulle tracce del flusso di denaro che partiva dal comunismo sovietico ed irrorava le casse (come da essi stessi riconosciuto) tanto dei comunisti occidentali, italiani compresi, quanto di imprese economiche apparentemente regolari. Erano le similitudini con il sistema mafioso che portavano i due magistrati a collaborare.

Ma, purtroppo, Scotti non ritiene di dirci di più. Forse non sa, forse solo immagina, di certo non scrive. Ci consegna, però, un ultimo, importantissimo indizio politico. Ci dice di essersi recato da Craxi per renderlo partecipe delle preoccupazioni che gli trasmettevano Parisi e Pisani, ma di averlo trovato scettico e disinteressato. Era già scoppiato il caso Chiesa (il “mariuolo”, come assai imprudentemente lo definì), ma Craxi pensava che tutto sarebbe rimasto sotto controllo e che, con l’elezione di un democristiano (Forlani) alla presidenza della Repubblica ed il ritorno di sé stesso a Palazzo Chigi, non c’era niente da temere. Scotti scrive di essere uscito impressionato da tanta sottovalutazione dei problemi. Ci racconta, però, di avere incontrato nuovamente Craxi dopo l’elezione di Scalfaro, e di averlo trovato furente e spaventato, oramai consapevole che il sistema stava crollando e convinto che sarebbe crollata anche la dc, non solo il psi.

Il tutto a distanza di pochissimo tempo e con la sola novità dell’elezione di Scalfaro. Ecco, voglio osservare che è un gran bene che su queste cose si cominci a ragionare, ma è un gran male che lo si faccia dicendo e non dicendo, in modo, insomma, reticente. La mancata comprensione di quei mesi, la palude di bugie nella quale li si immerge, è la base sulla quale si fonda un sistema pericolosamente instabile e, come lo stesso Scotti scrive, incapace di produrre politica. Purtoppo l’autore, in questo caso, segnala il buco ma non dice nulla sulla sua natura. Io segnalo il libro, sperando che Scotti trovi la forza di andare oltre.

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