Politica

Quirinale monarchico

Il Presidente della Repubblica partecipa, attivamente e pubblicamente, alla vita del governo. Essendo noto che il ministro della giustizia deve abbandonare il suo posto, avendo accettato un incarico di ben altra natura, è necessario sostituirlo. Il presidente del Consiglio ha detto d’essere pronto e di volere fare in fretta, ma Giorgio Napolitano lo ha pubblicamente smentito: quello pronto sono io, mentre al governo mi paiono un po’ indietro. Non si è limitato a questa, originale, affermazione, spingendosi fino a porre degli argini alla scelta spettante a chi guida il governo, pubblicamente preferendo la nomina di chi già non sia ministro. Il tema è delicato, mescolandosi considerazioni istituzionali con problemi politici. La diagnosi non felice: i binari costituzionali sono stati scassati e i vagoni corrono per i fatti loro.

I poteri presidenziali, in materia, sono definiti dall’articolo 92 della Costituzione, che stabilisce essere il Presidente a “nominare” i ministri, su proposta del presidente del Consiglio. La storia consegna molti esempi di come tale potere è stato interpretato. Luigi Einaudi, appreso di un documento in cui i gruppi parlamentari democristiani ponevano il veto su un nome, convocò i capi gruppo, li tenne in piedi, lesse loro una nota di durissima critica, affermando che non potevano porsi veti ad un potere presidenziale, e li buttò fuori senza concedere diritto di replica. Antonio Segni aveva un suo preferito, che impose nella formazione di vari governi (si ricordi che egli era anche un capo della potente corrente dorotea). Sandro Pertini informò il capo del governo che era pronto a cacciare due ministri che non davano buon esempio di sé. Oscar Luigi Scalfaro consentì la sfiducia nei confronti di un solo ministro, favorendo la sua sostituzione. Sono molti, e diversi, gli esempi che possono essere citati, ma non solo sono nella gran parte a sostegno del presidente del Consiglio, non era consueto che dal Quirinale si prendesse pubblicamente parte ad una discussione che riguarda la nomina di un ministro. Riservatamente, sì. Pubblicamente, no. Non era semplice ipocrisia, ma riconoscimento di una prerogativa governativa.

Nella nostra Costituzione il governo è un potere debole e sotto tutela, mentre il Colle più alto un potere elastico e tendenzialmente espansivo, per giunta accompagnato da una generale genuflessione. Da Pertini in poi, inoltre, non si fa che suonare la grancassa della popolarità presidenziale (urticante la definizione di Indro Montanelli: l’uomo che seppe incarnare al meglio il peggio degli italiani). Salvo il fatto che tutti gli altolocati inquilini, non appena usciti, vengono dimenticati. Popolarità indotta e a veloce decadenza.

Si pone anche un problema politico. Dopo la nomina di Saverio Romano a ministro dell’agricoltura (uno dei ministeri soppressi per referendum e poi risorto) il Presidente impose un nuovo dibattito sulla fiducia, come se fosse cambiato il governo. Per fare la guerra in Libia non era necessario sentire le Aule, per far accomodare Romano sì. Si fece il dibattito e la fiducia ci fu. Ora, per il ministro della giustizia, si replica? Stabilito il principio, come si fa a venirvi meno? Ma, del resto, è mai possibile fare un dibattito al mese sulla fiducia? L’unica scappatoia sarebbe mettere in quel posto chi è già ministro. Il tema, lo dico subito, non mi appassiona più di tanto, perché non esattamente al centro dei problemi italiani, ma la contraddizione quirinalizia va segnalata. Anche perché si suggerisce al governo di fare la sostituzione adesso, per poi organizzare successivamente un rimpasto. Praticamente passeremo settimane a parlare solo della fiducia. Il che è vagamente surreale, visto che il governo mi pare cotto da tempo, come da tempo conferma di avere la maggioranza in Parlamento.

Ci si dovrebbe occupare d’altro, a cominciare dalla riscrittura delle regole costituzionali. Attività che offrirebbe dignità a forze politiche, di maggioranza come d’opposizione, che mostrano di avere esaurito gran parte della propria vitalità. In quel lavoro costituente non si potrà non tornare anche sui poteri del Quirinale, che, in Repubblica, sono più ampi di quelli che il re aveva (ed altrove ha) nella monarchia costituzionale.

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