Politica

Sì global

Ottimo lavoro, quello fatto da Alessandro Cecchi Paone con il suo “Sì Global” (Il Saggiatore). Ottimo per la documentazione, le fonti, l’articolazione delle tesi, ma, prima di tutto, per il titolo che, già da solo, indica che l’autore non indulge a quell’appiccicosa piaggeria, nei confronti dei movimenti No Global, che impiastriccia il giornalismo più diffuso e ripetitivo.

La globalizzazione non è una condanna ma un’opportunità; non segna la vittoria delle multinazionali sul diritto delle genti, ma, semmai, offre a molti popoli una via d’uscita dalla povertà e dal sottosviluppo; non è una realtà mortificante delle diversità e delle libertà, ma, al contrario, un processo che travolge le autocrazie chiuse e liberticide, facendo circolare ricchezza ed informazione: due ingredienti detestati dai dittatori. Gli stessi movimenti No Global sono una dimostrazione di ciò.

Uno dei prodotti più globali che si conoscano è, tanto per fare un esempio, il libro di Naomi Klein, “No Logo” (a proposito, perché questo mattoncino non compare nella bibliografia?), divenuto una specie di manifesto dei contestatori. Così come prodotto o, se si preferisce, fenomeno globalizzato è lo stesso movimento No Global, che ha le caratteristiche che ha grazie al fatto che esiste un mercato dell’informazione capace di far vivere gli avvenimenti di Seattle come si fossero svolti sotto casa, capace di farne discutere i contenuti (?) come fossero stati elaborati nell’alveo di ciascuna cultura nazionale. E’ singolare che i protagonisti non se ne rendano conto, così com’è singolare che i Casarini di casa nostra non sentano il peso dell’eterno e ripetitivo conformismo dell’anticonformismo, che non avvertano nel loro stesso vestiario, nella loro voluta trasandatezza i marchi intramontabili e sempre nuovi del vecchio voler essere diversi dai propri simili.

Cecchi Paone che, negli anni, ha irrobustito le ossa del divulgatore, non cerca la semplificazione, non banalizza la tesi che sostiene, ma, al tempo stesso (ed è questo il suo merito), non seppellisce fra citazioni e riferimenti la semplice linearità di quel che intende affermare: la globalizzazione non è solo un processo inarrestabile, inestricabilmente connesso con lo sforzo di abbattere e travolgere le frontiere, è anche cosa buona e giusta.

Semmai si deve dire della globalizzazione la stessa cosa che la scuola democratica disse del capitalismo: non va considerato giusto o sbagliato, buono o cattivo, non ha un valore in sé, perché è solo uno strumento; tocca agli uomini, alla loro cultura ed alla loro volontà, in una parola alla politica, indirizzarlo verso la realizzazione del bene.

E’ proprio questa la sfida che li uomini liberi devono ancora raccogliere: non c’è dubbio che l’apertura dei mercati sia un fatto positivo; non c’è dubbio che la contaminazione culturale sia cosa di gran lunga più promettente e positiva delle culture chiuse ed autoperpetuanti; ma è anche vero che mentre i sistemi di produzione hanno fatto passi da gigante, mentre la circolazione dell’informazione e delle idee non hanno paragoni nel passato, le nostre idee sulla democrazia, sui sistemi rappresentativi, sulla selezione della classe dirigente, sono ancora quelle di due secoli fa. Saranno pure idee immortali, ma si deve cercare di non farle divenire idee imbalsamate.

Ha ragione l’autore a sottolineare che i movimenti No Global hanno radici sia a destra che a sinistra, nelle estreme, ma un unico denominatore comune: la paura. Ha ragione, ma si deve anche ammettere che, dal punto di vista dell’aggiornamento ideale a proposito della democrazia, anche i movimenti No Global svolgono un ruolo positivo. Tutto sta a non identificarli, in modo facilone e superficiale, con le avanguardie del nuovo, quasi siano paragonabili ai movimenti bracciantili all’epoca del latifondo. Come l’impavido e nobile Ruspoli tenta invano di spiegare, scendendo al fianco del baffuto e protezionista contestatore francese, quei movimenti sono gli eredi dei latifondisti.

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