Se solo si riuscisse ad accantonare la faziosità inutile, senza rinunciare a nulla della diversità di idee e proposte, troveremmo il bandolo della matassa, sia per le riforme costituzionali che per i conti pubblici. Nessuno governa per l’eternità. Il guaio è quando nessuno pensa a quando governerà ma soltanto a come arrivarci.
A giugno – una volta chiuse le urne, una volta constatato che le cose saranno (più o meno) come sono – si aprirà la procedura europea d’infrazione per lo squilibrio nei conti pubblici. Quel giorno si sentiranno due commenti opposti e parimenti sbagliati: a. la Commissione europea è antitaliana e noi dobbiamo sbatterle in faccia la nostra sovranità; b. non siamo i soli a subire la procedura, quindi non è un dramma e c’è tempo per ragionarne. Due commenti sbagliati perché il problema non è la procedura, ma i conti. Su quelli si deve stare attenti a non fare comunicazione ingannevole, spesso per inseguire la sciocca ambizione di annettersi dei meriti e attribuire colpe agli avversari. Si mettano l’animo in pace: hanno governato tutti, a turno, senza che vi sia traccia di svolte e sono lustri che si maneggia l’esistente rassegnandosi al persistente.
Prendiamo due contabilizzate verità: 1. nella stagione post Covid l’economia italiana è cresciuta più della media Ue e più di Francia e Germania, cosa valida ancora adesso (anche se il confronto con la Germania deve tener conto del fatto che lì è crollato un modello, perché sono cambiate le condizioni internazionali); 2. solo adesso, però, abbiamo recuperato le posizioni antecedenti la crisi del 2008, con 12 lunghissimi e terribili anni di ritardo rispetto a Francia e Germania. Sono i 12 anni che, assieme a un trentennio di ristagno, spiegano il diseguale andamento dei salari da noi e in altri Paesi europei.
Ha ragione Marco Fortis (Fondazione Edison) a osservare che nella stagione Covid il nostro deficit e il nostro debito sono cresciuti meno di quelli di altri Paesi europei, solitamente indicati come più rigorosi nel tenere i conti. Ma questa constatazione deve accompagnarsi a quella che è proprio perché siamo molto più indebitati e abbiamo una lunga storia di deficit che, nel momento del bisogno, possiamo farne meno degli altri. Non una bella cosa, tanto più che il debito ricresce comunque e lievita anche vendendo patrimonio (da ultimo quote Eni -2,8% – segue Poste). Brutta situazione. Eppure, avendo fatto meno debito emergenziale, siamo cresciuti più velocemente. Dimostrazione che lo dobbiamo al dinamismo dei produttori – imprese e lavoratori – e non alla filiera dell’assistenzialismo.
Se però si guarda al futuro prossimo, da che noi si cresce più degli altri si tornerà a crescere meno; mentre gli altri accelerano noi si ristagna, pur avanzando. Si tratta di quella diversa accelerazione che ci ha fatto guadagnare 12 anni di ritardo. Ma, in quel futuro prossimo, noi dovremmo essere quelli che ricevono la maggiore spinta dagli investimenti legati al Pnrr, ovvero dalla possibilità di spendere soldi che ci costano assai meno di quelli presi direttamente a prestito sui mercati. Com’è possibile? Perché è inceppato l’ingranaggio dell’adeguamento alla realtà. Funziona nel privato, ma è bloccato nel pubblico. Vivremo l’ennesima estate in cui si proverà a non far vedere il nesso fra il caro ombrelloni, l’assenza dei servizi igienici e il rifiuto delle gare per gli stabilimenti balneari. Il che comporta meno investimenti, più rendite e meno servizi, venduti a più alto prezzo. La formula per la generazione della miseria e il prosperare dell’evasione fiscale.
Si tratta di un’inezia, certamente, ma proprio per questo rivelatrice. Chiunque sia dotato di raziocinio sa cosa sia bene fare, ma nessuno di quelli che inseguono il consenso ha il coraggio di farlo perché manca della capacità di scegliere, sperando di rappresentare tutti gli interessi in conflitto. Difatti chi finanzia la politica per ingraziarsela li finanzia tutti. Sarebbe irrazionale, se non si vivesse nel blocco.
Davide Giacalone, La Ragione 18 maggio 2024