Economia

Alitalia in altalena

Alitalia in altalena

Le azioni Alitalia vanno in altalena, sospinte verso il basso da un chiacchiericcio ministeriale che Tommaso Padoa-Schioppa spererebbe, ma non ha la forza di far tacere. La situazione è piuttosto grave, anche se, come spesso capita, non manca di un suo lato grottesco, e per rendersene conto sarà sufficiente osservare la distanza che corre fra le parole scritte dal governo e quelle dette dai ministri.

Prima, però, si ricordi che quando le parole dei ministri determinano i corsi azionari ci sono solo due cose da fare: o si sospendono le azioni o si sospendono i ministri. Questo dove politica si scrive con rispetto e mercato con cautela.

Con un bando del 29 dicembre scorso il governo ha reso noto un “Invito a manifestare interesse all’acquisto di una quota non inferiore al 30,1% del capitale di Alitalia”. La quota di azioni posseduta dallo Stato è del 49,9%, e se le parole hanno un senso vuol dire che si chiedeva chi fosse interessato ad acquistare azioni per un minimo del 30,1, fino ad un massimo di tutto il pacchetto. In altre parole il governo intendeva sapere quanti fossero disposti a prendere la società per vedersela con il mercato, od anche a tenersi lo Stato come socio, lasciando agli offerenti di decidere e dando per inteso che di suo era già disposto a vendere tutto. Questa era la base di quel processo di dismissione (che non chiameremo di privatizzazione perché, come con Telecom, non si possono privatizzare società quotate in Borsa) che si avviava con la manifestazione d’interesse e si sarebbe concluso nel mese di giugno. Ma al ministro Alessandro Bianchi, letteraria figura di comunista indipendente, la faccenda non sta affatto bene. Aveva già prima detto che lo Stato non sarebbe mai dovuto uscire dal capitale Alitalia, aveva poi taciuto quando la faccenda sembrava essersi risolta con il bando e, quindi, con il prevalere di una linea diversa, ed ora torna a parlare, dopo che undici soggetti si sono detti interessati, e dopo che almeno uno lo ha fatto sottolineando di volere comperare tutto il 49,9 disponibile, per ribadire che lo Stato non intende venderlo. Per amore di precisione ha anche aggiunto che in mano pubblica può pure restare una quota inferiore al 20%, ma comunque significativamente superiore al 5. Se volete sapere a cosa corrispondono queste quote, qual è il loro significato aziendale e di mercato, iscrivetevi ad un corso d’economia per corrispondenza, a Cuba. Se invece siete degli avvocati, mettetevi a disposizione di chi verrà escluso a causa di una condizione posta successivamente al bando ed al deposito delle buste chiuse, pregustando la vittoria in giudizio.

Giovedì sera si tiene l’incontro del governo con i sindacati, cui prendono parte sia Padoa-Schioppa che Bianchi, il quale in questa sede dorme fra due guanciali giacché non c’è da dubitare che i sindacati stanno dalla sua parte. E, difatti, ecco la dichiarazione del segretario generale della FitCisl, Claudio Claudiani “il Tesoro deve, come non ha escluso Padoa Schioppa, mantenere la sua presenza nella compagine azionaria”. E tutti quanti i sindacalisti sottolineano “l’impegno preso dal governo a mantenere la compagnia di bandiera anche una volta privatizzata Alitalia”. Abbracci e baci finali, con il reciproco impegno a rivedersi e quello del governo a concordare con il sindacato ogni prossimo passaggio. Del bando datato 29 dicembre ne hanno già fatto coriandoli, mentre è ripartita alla grande quell’abitudine a trattare sul tavolo politico e sindacale gli affari di Alitalia, vale a dire quella condotta cui si deve gran parte dello sfacelo.

I mercati sono piuttosto attenti alle parole della politica, e sanno bene che quella attorno ad Alitalia è prima di tutto una partita politica. E’ vero che Alitalia ha perso quote del nostro mercato nazionale, scendendo dal 66% del 1998 al 44 del 2005, ma è anche vero che mantiene saldo il dominio sulla tratta più ricca: 92,5% fra Malpensa e Roma, ed il 60 fra Linate e Roma (la seconda quota è quella di Air One, con il 34,2, il che esclude una fusione fra le due società che non si accompagni ad una seria iniziativa antitrust sugli slot, gli spazi per atterraggio in quei tre aeroporti). Sulle tratte internazionali che comprendo l’Italia, invece, il suo peso è marginale: 17,4 in Europa e 25,9 (mediante alleanze) nel mondo. Con queste cifre alla mano si capisce che l’umore della politica italiana è importante affinché un investitore possa stabilire se sta facendo un buon o cattivo affare. E dopo tanto trionfalismo per le undici manifestazioni d’interesse, preso atto che si tratta solo di un primo approccio e che Bianchi già ne contraddice alcune, c’è sempre la possibilità dell’effetto “sora Camilla” (quella che tutti la vogliono e nessuno se la piglia).

Visti i guai che stiamo passando per Autostrade, visto il disastro combinato con la malaprivatizzazione di Telecom Italia, sarebbe il caso di concentrarsi sulle condizioni da imporre agli acquirenti, lasciandoli poi liberi di fare le loro scelte manageriali. Ma nel governo non si placano le idee diverse ed incompatibili fra loro, e, con il suo solito italico alato, è stato il ministro Di Pietro, ieri, dopo il consiglio dei ministri, a dichiarare: “Abbiamo tutti condiviso l’appello del ministro Padoa-Schioppa per una massima riservatezza in merito a tutte le comunicazioni in corso che riguardano la stabilità del mercato e in merito soprattutto alla vendita di Alitalia” (propongo la nascita della lega per la salvezza della virgola). State zitti, perdindirindina, deve aver detto il ministro tratteggiato. Mi associo, anche perché ad ogni parola i risparmiatori che hanno fiducia in Alitalia beccano una mazzolata. Parli solo lui, e ci dica: i sindacati hanno capito male, o avete già cambiato idea e non vale più quel “non inferiore al 30,1” che scriveste nel bando. Sa com’è, qui in occidente i mercati li si informa in maniera trasparente.

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