Economia

Arma d’esclusione di massa

Arma d'esclusione di massa

Se vendessimo zuffe e baruffe vedremmo impennarsi la ricchezza nazionale. Invece perdiamo terreno dalla fine degli anni novanta. Ci siamo beccati due anni di recessione e, con i tassi di crescita che ora si prevedono, non riusciremo a reggere il debito pubblico, che ci aumenta fra le mani senza che noi si spenda. Le piazze, al momento, si riempiono poco e si colorano per altri motivi. La politica divaga, come se le carte bollate fossero commestibili. Così procedendo perdiamo l’occasione par fare riforme virtuose, in compenso scornandoci su quelle all’acqua di rose.

Mi ha molto colpito il ragionamento che Luca Ricolfi sviluppa su Panorama. In condizioni normali, dovrebbe essere fra i primi punti all’ordine del giorno. Noi sappiamo, difatti, per averlo sentito ripetere un miliardo di volte, e per averlo visto nei dati ufficiali diffusi dalla Banca d’Italia, che il potere d’acquisto dei percettori di reddito da lavoro dipendente è, da noi, fra i più bassi d’Europa. I nostri lavoratori, insomma, guadagnano poco. Ricolfi ha rifatto i conti e s’è accorto che non tornano: quei dati sono veri, ma solo a patto di confrontare le buste paga, a prescindere dal lavoro. Se si calcola, infatti, il potere d’acquisto per ora lavorata, la nostra media scavalca d’un balzo la Spagna, la Germania e il Regno Unito. Se si prende in considerazione il potere d’acquisto per ora lavorata e per qualificazione di chi la svolge, bruciamo anche la Francia e siamo i primi in Europa. Morale: rispetto a quanto e come si lavora, i nostri dipendenti sono i meglio pagati.

Non solo, allora, tutta l’impalcatura delle rivendicazioni salariali viene giù, ma la cosa impatta sul modo stesso in cui abbiamo strutturato il nostro mercato economico e spiega il continuo calo di produttività. Riusciamo ad essere, contemporaneamente, i primi e gli ultimi, perché chi lavora è ben pagato, rispetto a quantità e qualità del lavoro, ma sono troppo pochi che lavorano per troppo poco tempo. Ecco perché perdiamo terreno.

Ieri, festa della donna, sono stati pubblicati (da La Stampa) i dati Ue sulla differenza salariale fra maschi e femmine. Il nostro è il Paese più egualitario d’Europa, visto che i maschi guadagnano solo il 4,9% in più delle femmine. Evviva, mimosa per tutti. Ma è un dato senza senso, una presa in giro: la distanza è così bassa perché, come detto, i nostri dipendenti guadagnano meno della media europea e perché le donne che lavorano sono assai meno della media europea. Adesso vino a tutti, ma per dimenticare.

Per far fronte alla crisi, allora, non si deve stringere la cinghia, ma allargare i recinti del lavoro. Aumentare l’elasticità, in modo da consentire a molti più giovani e a molte più donne di entrarvi e, se necessario, di uscirne. Un mercato del lavoro osmotico, con minori garanzie di stabilità, è assai meno respingente di quella roba rigida che abbiamo in mano, divenuta un’arma d’esclusione di massa. Una politica raziocinante dovrebbe sì occuparsi di trovare un posto in lista, ma anche di favorire la creazione di posti a tavola, allungando il desco e incentivando le cucine. Magari con una destra più attenta alle ragioni della produttività e una sinistra più incline ad occuparsi delle porzioni. Invece sembra di vivere in un incubo destinato a propiziare la divagazione e la conservazione.

Prendete l’accesa concione sulla possibilità d’arbitrato nei contratti di lavoro. Pochi ne leggono e meno ne capiscono, quindi diciamola in pillole: lo statuto dei lavoratori stabilisce l’impossibilità di licenziare senza giusta causa, con il risultato di far entrare i magistrati anche nel governo delle aziende. A far le cose seriamente, andrebbe cancellato. Lo disse un presidente di Confindustria, Antonio D’Amato, e lo lapidarono, compresi i suoi associati. Quello, si blatera, è un principio intoccabile, a difesa dei lavoratori. Ma quando mai?! E’ un modo per non far entrare la gente nel mercato del lavoro. Comunque, la maggioranza spinge una riforma che introduce una camomilla, per giunta in dosi omeopatiche: la possibilità degli arbitrati, in modo che le controversie circa i rapporti di lavoro possano avere tempi meno insensati. Insorgono la Cgil e la sinistra: orrore, qui si cancella l’articolo 18. Rispondono Cisl e Uil, assieme alla maggioranza: neanche per idea, quell’articolo non si tocca, ci si limita ad offrire, al lavoratore, uno strumento in più. Detto in altre e più schiette parole: stiamo discutendo di un dettaglio, ininfluente sulle scelte di mercato. E se la rissa scoppia sul niente, figuratevi a palare di cose vere.

Non sta scritto da nessuna parte che l’Italia debba arrancare, con una crescita inferiore a quella degli altri europei. Abbiamo le carte in regola per correre e, semmai, scattare. Ma ci manca una classe dirigente degna di questo nome. In politica, certo, ma anche nell’industria, nel sindacato, fra le menti pensose, che non sempre son pensanti. Basterebbe il coraggio, a cominciare dalle parole chiare, per tirarci fuori dalla morta gora.

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