Economia

Azionisti Bankitalia

Azionisti Bankitalia

Gli azionisti della Banca d’Italia non hanno mai avuto e non hanno alcuna influenza sulle decisioni della banca centrale, la cui autonomia è tutelata dalla legge. Un problema c’è, però. Forse qualcuno ricorda il decreto legge del 2013, con cui si stabilì la rivalutazione di quelle partecipazioni e si fissò al 3% il tetto massimo che un solo soggetto poteva possedere. Si disse, allora, che della banca centrale si voleva fare una public company. Scrivemmo che era uno sproposito.

Trovavo e trovo ingiusta quella rivalutazione, perché le banche che avevano in portafoglio quelle azioni non avevano corso alcun rischio e neanche avevano compiuto alcuna scelta. Fu Camillo Benso, conte di Cavour, a volere una banca emittente sabauda, allora posseduta da privati. Nel 1936, con la legge bancaria, quelle quote furono assegnate alle banche pubbliche, per un valore di 300 milioni di lire (156mila euro). Perché mai rivalutarle nei loro portafogli? Si sarebbe potuto ristrutturare la proprietà trasferendola a un istituto pubblico, al valore nominale, procedendo dopo alla rivalutazione. In questo modo i soldi pubblici (ovvero dei cittadini) sarebbero rimasti pubblici, senza far regali a nessuno. Si scelse diversamente, anche perché quella rivalutazione generava un gettito fiscale, di cui l’erario è costantemente affamato. Resto dissenziente, ma cosa fatta capo ha.

A quel punto, però, la gran parte delle quote sarebbe dovuta essere smobilizzata e venduta. Basti pensare che Banca Intesa possedeva poco meno del 44% delle azioni, mentre Unicredit poco più del 22. Ciò era accaduto perché quei gruppi bancari erano e sono il prodotto di aggregazioni successive, quindi anche del relativo sommarsi di azioni Bd’I. Chi avrebbe comprato azioni più costose, che danno rendimenti certi, ma nessun peso nelle decisioni?

Scorrendo l’elenco degli odierni partecipanti all’assemblea si evince che: 1. Banca Intesa è riuscita a vendere di più, trovandosi ora in possesso del 24% delle azioni; 2. Unicredit è scesa meno e mantiene il 17.9; 3. i primi cinque azionisti sono tutti sopra il 3%, arrivando complessivamente al 56. Dovrebbero avere il 15. Oggi non si pongono problemi, perché la data limite, per regolarizzare le posizioni, è il 31 dicembre 2016. Che deve ancora arrivare, ma non è poi così lontano. Se in due anni qualche cosa s’è mosso, più che altro in capo al primo azionista, nei prossimi sei mesi dovrà essere venduto più del 40% delle azioni. Vedremo se ci si riuscirà, intanto, però, diamo un’occhiata ai nuovi entrati.

Sono enti di assistenza: Inps; Cassa forense; Inarcassa; Empam; Inail; Enpaia; la Cassa degli assistenti del lavoro. I soldi delle pensioni, in buona sostanza. Sarà anche un cattivo pensiero, ma lo penso ugualmente: hanno l’aria d’essere investimenti più spintanei che spontanei. Non è entrato nessuno su cui non si potesse esercitare una qualche pressione, che la si chiami “politica” o di “moral suasion” cambia solo la lingua. Eppure resta da collocare più del 40%.

In questi due anni e mezzo è accaduta una mutazione genetica: siamo entrati nell’era dei tassi d’interesse a zero. In qualche caso sotto zero. Non durerà in eterno, ma ci siamo. Il rendimento delle azioni Bd’I è così passato da testimoniale a interessante, quindi potrebbe essere più semplice collocare il rimanente capitale da smaltire. Solo che la discesa dei tassi si deve al pompaggio di denaro effettuato dalla Banca centrale europea. Ora, a parte la difficoltà di spiegare il mondo dei tassi a zero, che di suo è salutare, ma illogico, ci manca solo che si usino i soldi della Bce per comprare azioni della Bd’I, che della Bce è a sua volta componente. Lucrando sulla differenza. Il pasticcio di allora, insomma, deve ancora essere sfornato. Il profumo che arriva dalla cucina impensierisce.

Pubblicato da Libero

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