Economia

Banca sleale

Banca sleale

Nell’anno di disgrazia 2008, alcune banche, nel mondo, hanno tirato le cuoia, altre sono finite sotto la tenda ad ossigeno. Quelle italiane hanno chiuso i bilanci in attivo. Per citare due esempi: Unicredit ha portato a casa 4,012 miliardi di utili, Intesa 2,553. Meno degli anni precedenti, ma comunque un bel risultato.
Abbiamo, dunque, i migliori banchieri del globo? Non esattamente, se si guarda dentro i bilanci si scopre che, laddove erano loro ad investire i soldi della banca, le cose sono andate come agli altri: fra il male ed il malissimo. Dove, invece, si è trattato di intermediare il denaro degli italiani, lavorando sulla differenza dei tassi, a seconda che si tratti di soldi dovuti alla banca o dovuti al cliente, di quanto si paga per avere denaro e quanto si guadagna nel metterci il proprio, di quanto tempo ci vuole per un accredito e quanto meno per un addebito, le cose sono andate come al solito: assai bene. In questi numeri c’è il riassunto del disagio di molti clienti, la cui sensazione d’essere fregati non sempre è manifestata con linguaggio scientifico, ma sovente è più che fondata.
Date queste condizioni, e dato il fatto che il governo è intervenuto, con i soldi del contribuente, due volte, la prima garantendo i depositi e la seconda consentendo il consolidamento patrimoniale, è vagamente stucchevole che gli artefici del capolavoro s’incaponiscano a dar lezioni. E’ vero, dunque, che le banche italiane sono, mediamente, in condizioni migliori rispetto a quelle di altri Paesi europei o degli Stati Uniti, ma perché le piccole e medie aziende, così come i risparmiatori nostrani sono trattati peggio. Siamo pure grandi risparmiatori, di quel che guadagniamo consegniamo molto alle banche. Più il cliente è debole, più è privo d’alternative, più deve subire le condizioni dettate da dietro lo sportello, e più il sangue fluisce dalle sue vene a quelle delle banche. Che chiudono i bilanci in utile e dicono: guardate quanto siamo bravi.
La permanenza di questo squilibrio sarebbe impossibile se il mercato fosse veramente improntato alla concorrenza. Se i margini di profitto, tratti dalla gestione dei conti correnti e dei depositi, sono così alti, in un sistema aperto alla competizione ci dovrebbe sempre essere un concorrente pronto a rinunciare ad una parte del guadagno pur di avere più clienti. Se un’azienda, anche piccola, ha ordini per milioni, è sana, ma oggi si trova in crisi di liquidità, ci dovrebbero essere banchieri pronti a farsi in quattro per accaparrarsi quel cliente. Che, invece, rimane con il cappello in mano, a fare il giro delle sette banche, per sentirsi dire che c’è la crisi e Basilea due (i nuovi criteri di contabilità), quindi soldi con il contagocce, o niente. In quanto al cittadino, il più delle volte sceglie la banca come l’ufficio postale, basandosi su criteri di vicinanza e comodità, tanto le condizioni sono le stesse.
E non basta, perché quelli che hanno consegnato in gestione i propri risparmi si sono sentiti chiedere la sottoscrizione di moduli nei quali si autodescrivono come avventurosi speculatori. Pochi se ne sono inorgogliti, i più hanno capito l’antifona: dopo avere piazzato nel portafoglio dei clienti dei titoli illegali e spazzatura (leggi bond Cirio e simili), le banche si preparano a declinare ogni responsabilità per le future perdite. Non è un comportamento leale. Il minimo che possa capitare, quindi, è che se si chiede l’opinione delle vittime, queste s’esprimano con toni accesi e leggermente imbufaliti.

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