Economia

Banche e disoccupati

Banche e disoccupati

I disoccupati, in Europa, hanno raggiunto l’11,7%. Dato riferito a ottobre e reso noto dalla Banca centrale europea, che aggiunge: la situazione è andata continuamente peggiorando e la ripresa, supposta in arrivo per la seconda parte del 2013, sarà lenta. Per capire il nesso fra dati e politiche, leggete quel che ha detto Ben Bernanke: finché la disoccupazione statunitense sarà superiore al 6,5% la Federal reserve terrà i tassi d’interesse “eccezionalmente bassi”. Infine, prendete nota di quel che pensa Mark Carney, non molto noto, dalle nostre parti, ma appena dimessosi da governatore della Bank of Canada per andare a ricoprire lo stesso posto alla Bank of England (come un calciatore straniero, preso perché fenomenale): abbandoniamo l’idea che le autorità monetarie servano per difendere il mercato dall’inflazione e se la ripresa non parte meglio occuparsi di occupazione e crescita. Capito? Non siamo noi, poveri fissati, a sostenere che la politica imposta dalla Germania della Merkel è sbagliata, non ci siamo accorti solo noi che quella ricetta è fallimentare, come s’è sperimentato in tutti i disgraziati paesi che hanno fatto da cavie, Italia compresa, è l’intero mondo occidentale, non germanocentrico, o, se preferite, anglosassone, a urlarlo.

Se le cose vanno meglio, in eurolandia, se anche l’asta dei Bot è andata alla grande, con il doppio della domanda (segno che non solo siamo pagatori seri, ma anche generosi), è perché la Bce in parte s’è mossa e in parte ha lasciato intendere che è pronta a muoversi secondo lo schema di gioco anglo-statunitense. Non è proprio così, ma per quel che ci somiglia già funziona. Basta non essere così ottusi da guardare solo il monoscopio degli spread italiani, seguendoli con l’aria ebete di chi ci cerca un’indicazione di vita, modello oroscopo, ma seguire l’andamento dei tassi d’interesse e degli spread altrui, così accorgendosi che dopo la vampata della scorsa estate sono tutti in discesa. Merito della Bce. Ma, anche, segno che la dottrina tedesca è stata sconfitta.

In cambio il governo Merkel non si accontenta certo solo degli applausi della sinistra italiana, che si suppone sia alleata dei socialdemocratici tedeschi, suoi avversari, e tutti motivati da mero antiberlusconismo inguinale. Vuole di più, e mi pare lo abbia ottenuto nell’accordo sulla vigilanza bancaria europea, che esclude da quella copertura, lasciandole alla competenza delle autorità nazionali, le banche con un valore degli asset sotto i 30 miliardi e una rilevanza che non supera il 20% del prodotto interno lordo nazionale. Detto in modo più diretto: le Landesbank tedesche non risponderanno alle autorità europee. Se fossero italiane si griderebbe allo scandalo e noi stessi sosterremmo che per finanziare liberamente gli amici degli amici, usando banche pubbliche e con vertici nominati dalla politica, si sfugge al controllo indipendente. Ma sono tedesche, sono messe male e servono tanto per la campagna elettorale. Questo la signora Merkel ha avuto in cambio, sicché piantiamola di credere (scioccamente) che certi mercanteggiamenti siano estranei ad altri.

Ora, però, nessuno creda che la politica attiva e la linea espansiva della Bce propizino il ritorno della spesa pubblica allegra, perché è vero il contrario: regge finché nessuno potrà accusarla di favorire spese improduttive, o direttamente assistenzial-clientelari. Quindi noi, che all’Ue diamo più di 14 miliardi l’anno (essendo i terzi pagatori), che siamo quelli con il miglior avanzo primario (i francesi se lo sognano) e dobbiamo fare i conti con un debito aggregato inferiore a quello di chi pensa di darci lezioni, abbiamo le carte in regola, sudate e pagate, per volere contare e avere un ruolo guida, in Europa. Ma dobbiamo radere al suolo il Pusp, il partito unico della spesa pubblica, che è la pietra che abbiamo legata al collo, nonché la causa del debito pubblico troppo alto, nostro supplizio e nostra debolezza. Siamo nelle condizioni, intendo dire, per influire sulle politiche europee, spingendole nel senso dell’accelerazione dello sviluppo, favorendo defiscalizzazione e più investimenti infrastrutturali, mettendo anche nel conto un po’ d’inflazione (che è meglio dell’abbondante recessione), ma per farlo abbiamo bisogno di un governo che non sia né di scolaretti intimoriti, né di sindacalisti corporativi, che sappia tagliare e la smetta di tassare.

Se solo fosse possibile far vedere agli italiani quali sono i vantaggi, in termini di ricchezza e occupazione, di una simile politica, i tagli alla spesa corrente sarebbero reclamati a furor di popolo, anziché avversati come puntassero ad affamare il popolo.

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