Economia

Cellulare caro, destino amaro

Cellulare caro, destino amaro

Non è la storia di una “normale” fregatura per i consumatori, è una tragedia nazionale. Noi siamo il Paese con la più alta densità mondiale di telefoni cellulari (più di 150 ogni 100 abitanti), ma paghiamo il traffico oltre la media dei Paesi industrializzati (fonte Ocse). Un non senso economico, che però è niente rispetto alla più umiliante sconfitta: partimmo con un gran vantaggio e ci ritroviamo senza operatori nazionali. Chi vorrà raccontare le tappe del declino, non potrà saltare il capitolo delle telecomunicazioni.
Se si guarda solo l’andamento delle tariffe telefoniche, con riferimento esclusivo al nostro mercato nazionale, sembra che le cose non potrebbero andare meglio, con un calo progressivo che contrasta la crescita dell’indice dei prezzi. Ma se si confronta quel che è avvenuto in Italia con quello che è avvenuto ed avviene in Paesi direttamente paragonabili (non lo sono gli Stati Uniti, per ragioni tecniche) il sorriso appassisce. Visto che ci sono più gestori, quindi siamo in un regime di concorrenza, qualcosa di profondo non funziona. L’autorità di controllo non ha fatto al meglio il proprio dovere, le tasse governative sugli abbonamenti distorcono il mercato, il mancato via libera ai gestori virtuali (che non dispongono di rete propria e portano la concorrenza nel settore dei servizi) è stato un costoso regalo alle compagnie esistenti. Noi tutti, che paghiamo troppo il nostro telefono cellulare, dobbiamo ringraziare il legislatore, il governante e gli arbitri. Questo, però, non è il lato peggiore.
Nel 1990 eravamo all’avanguardia in Europa, vale a dire nel mondo. La penetrazione dei cellulari era superiore solo in alcuni Paesi scandinavi, dove, però, la poca densità della popolazione e le condizioni climatiche avevano sconsigliato la diffusione dei cavi e favorito le reti in radiofrequenza. Non solo eravamo in anticipo, ma avevamo un campione nazionale, quotato in Borsa e controllato dallo Stato, per il tramite della finanziaria Stet. Si chiamava Sip, la Tim non era ancora nata. Da allora in poi sono successe tre cose, equivalenti a tre offese agli interessi nazionali: 1. la concessione al secondo gestore, Omnitel, facente capo alla Olivetti, fu data, dal governo Ciampi, in omaggio ad equilibrismi di potere economico e politico, non per meriti o reali promesse di mercato; 2. Telecom Italia fu privatizzata, ministro del tesoro sempre Carlo Azelio Ciampi, con regole che, immediatamente dopo, furono tutte clamorosamente violate, inoltre fu venduta per fare cassa, senza strategia di mercato ed apertura reale alla concorrenza; 3. il colpo mortale arriva con la scalata illegale, avviata da una cordata radicata all’estero, con soggetti che rimangono ancora oggi sconosciuti, e favorita dal governo dell’epoca, presideuto da Massimo D’Alema. Tre pietre tombali.
Oggi ci ritroviamo ad essere un Paese di consumatori non produttori, che usa massicciamente la telefonia cellulare, ma non dispone della larga banda, quindi dei servizi più moderni e necessari a rendere dinamico il sistema produttivo. Ma abbiamo gestori tutti posseduti dall’estero, senza protagonisti nazionali, con la stessa Telecom Italia trasformata da gallina dalle uova d’oro in pollo indebitato, talché gli spagnoli di Telefonica posseggono la maggioranza relativa nella scatola di controllo (Telco), in attesa di deglutire il boccone o rigurgitarlo, a favore di altri stranieri. L’indotto tecnologico quasi inesistente.
Tenere le tariffe alte allo scopo di tutelare dei protagonisti nazionali non è una bella cosa, ma almeno ha un senso. Gravare, invece, sulle tasche dei cittadini allo scopo di tenere in equilibrio conti aziendali di chi ha fatto troppi debiti, arricchendo investitori stranieri, è sospetta follia. A questa seconda dottrina ci siamo allineati, da anni.
Mi ha colpito la superficialità con cui molti hanno commentato, o semplicemente riportato, i dati Ocse. Se si somma quel che ciascuno di noi paga di troppo a quel che è stato sottratto al patrimonio nazionale, si ha il totale della più grande rapina effettuata. Ma senza troppo scandalo, anzi, con qualche prezzolato applauso.

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