Ci sono imprenditori italiani che boccheggiano, strappando al commercialista il diritto di non arrendersi e soccombere. Imprenditori cui le banche negano i soldi, anche se potenzialmente pieni di ordini e futuro fatturato. Questi stessi soggetti potrebbero dispiegare i polmoni e gridare la loro forza, puntare alla crescita anziché alla sopravvivenza, essere colmati di quattrini anziché elemosinarli, se solo avessero la possibilità di guardare al mercato cinese, o a quello dei Paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina). Se solo vivessero in un Paese capace di considerarli produttori di ricchezza, anziché pagatori di tasse. Se solo il loro essere dei nanerottoli fosse compensato da una diplomazia commerciale che si rendesse utile con i piccoli anziché ossequiosa con i grandi. Se solo la si smettesse, anche sui giornali e i mezzi di comunicazione, di dir corbellerie.
E’ vero che il turismo cinese cresce alla grande, anche perché hanno 130 milioni di ricchi, che si avviano a diventare 250, ed è certamente vero che noi dobbiamo intercettarne molti di più. Ovvio: siamo il Paese del bel vivere e delle bellezze naturali e artistiche, siamo grandi grazie al passato. Ma, per la miseria, non siamo mica solo il paradiso del mandolino e della pizza (posto che il primo non lo suona quasi nessuno e la seconda si commercializza nel mondo senza marchi italiani, come anche il gelato, che vergogna). Noi siamo il Paese delle grandi innovazioni tecnologiche, con un tessuto industriale fatto di piccole e medie imprese che rimangono tali solo perché ci siamo dati leggi demenziali che ne puniscono la crescita, ma che contengono valore tecnologico di gran pregio. Siamo quelli che hanno dato al mondo la plastica e il motore delle automobili, mica solo ugole incantate e camerieri per ricconi.
Ci sono cose che mi fanno veramente arrabbiare. A Shanghai, nel corso dell’Expo tenutosi lo scorso anno, il padiglione italiano è stato il più frequentato e ammirato. Ci si trovava il Made in Italy e la tecnologia. La municipalità di Shanghai mise i propri edifici a disposizione de l’“Italia degli Innovatori”, che aveva portato in Cina tante piccole eccellenze italiche. Non solo si sono fatti affari, ma ci hanno chiesto di continuare. E’ stato firmato un protocollo per lo scambio tecnologico e, ad aprile, ne sarà firmato uno per il design (roba industriale). Non solo di tutto questo non parla nessuno, ma basta che ci sia l’olezzo di uno scandalo e allora sì che ci si accorge dell’Expo (da quel che ho capito una roba sull’appalto dei rinfreschi, che definire irrilevante è già generoso). Questa è l’Italia: ci fa senso parlare dei nostri successi, mentre ci rotoliamo nella palta con impareggiabile lussuria. Solo che, nei capannoni dove si produce la ricchezza che ci sfama tutti, della palta non sanno che farsene.
Faccio un esempio concreto, perché la vita, in amore e affari, è fatta di carne e rumori, mica di sogni e melodie. C’è un imprenditore italiano che ha portato a Shanghai una sua vernice, che non trattiene lo smog. I cinesi esaminano, si convincono e gliene chiedono tanta per provarla. Lui, però, è in ginocchio: la cava da cui traeva la materia prima gli era stata tolta dal comune, la causa s’è trascinata (tanto per cambiare) per anni, ha vinto, è roba sua, ma, nel frattempo, per non chiudere s’è indebitato. Ora arriva l’occasione della vita, va in banca e lo prendono a pernacchie. Sapete a cosa porta questo schema? Lui vende il brevetto ai cinesi, quelli glielo pagano due lire e noi tutti c’impoveriamo, candidandoci a spadellare qualche leccornia per il cinese acquirente, ove mai voglia venire in vacanza in questo meraviglioso e miserabile Paese. Invece di portare i cinesi a investire da noi li avremo spinti a compare, a prezzi di saldo, un pezzo di ricchezza nazionale. E tutti vissero cornuti e mazziati.
Non basta limitarsi ad evitare, e si può, quello specifico errore, ma si deve offrire sviluppo a tutti. Sperando di non essere arrestati per averci creduto. E siccome stiamo parlando d’affari con la Cina, non sfuggiamo al tema dei diritti umani. Anche qui, superficialità a carrettate. Il concetto di “democrazia” è sconosciuto alla storia cinese, mentre l’immenso Paese è l’unico che ha conservato la forma antica, risalente a prima dell’impero romano, perché non ha ceduto alle nazionalità. E’ un sistema comunista, o, meglio, che si chiama tale. E io sono un anticomunista. I dirigenti del partito d’oggi, però, erano quelli che stavano in galera, o i cui padri stavano in galera, durante la rivoluzione culturale maoista. Il futuro capo della Repubblica sarà di Shanghai, ovvero della città più aperta ed europeizzante. I giovani, per strada, sono la copia dei nostri giovani. Le ragazze fanno di tutto per non sembrare cinesi. E’ partito anche il mercato della chirurgia estetica, per allargare occhi e seno. Noi, insomma, incarniamo un modello occidentale verso il quale quella società si è lanciata e sbilanciata, non potendo più tornare indietro. Ogni fine settimana un esercito di ricchi si abbatte su Hong Kong e Macao, e mentre i mariti si godono il club, il vino ed i sigari (tutta roba non cinese), le loro signore si gettano alla conquista del lusso. Rigorosamente autentico, perché i falsi li confezionano per noi, che li facciamo commercializzare ai senegalesi, davanti al Parlamento. E’ chiaro?
I diritti umani saranno imposti da queste forze, non dal piagnucolio. Deng Xiaoping vide il crollo dell’Unione Sovietica e capì che la sorte era segnata, se non si fosse cambiato passo. La corsa al mercato ha trasformato un popolo d’affamati, dominati da una tirannia pauperista, in un Paese che viaggia alla velocità della luce, governato da una tecnocrazia d’altissimo livello. Qui ci sono opportunità e sfide. Mancando le prime e sfuggendo alle seconde perderemo sia la pagnotta che l’ideale. Un risultato a suo modo ragguardevole.