Economia

Come immaginare il futuro

Come immaginare il futuro

Il tema è: come sarà, in futuro, la comunicazione, cosa può venirne di buono al mondo che ci circonda e, conseguentemente, quali nuove possibilità saranno offerte dal mercato.

A leggere i commenti ed ascoltar le chiacchiere si ha l’impressione che la qualità della comunicazione, oggi, sia pessima. Non ci si riferisce solo a quella italiana, ma, in generale, a quella dei paesi democratici e ricchi. A credere alle chiacchiere ci si sbaglia.

Con l’affermazione del volgare si disse che la fuga dal latino, lingua dotta e degli iniziati (il manzoniano latinorum), avrebbe favorito un imbastardimento della cultura. Suona strano, oggi, pensare che questo possa valere per Dante o Petrarca.

Con il diffondersi dei caratteri mobili i testi stampati divenivano accessibili ad un pubblico più vasto, ed anche questo fu inteso come un processo di corruzione (specie nei paesi in cui la cultura religiosa veniva mediata dal clero, la stessa cosa non poteva dirsi per Lutero, ad esempio, che grazie alla Bibbia stampata in tedesco vide affermarsi le sue opinioni e teorie).

La stampa popolare, particolarmente diffusa nei paesi anglosassoni, racconta con dovizia di particolari storie di sesso e violenza. La televisione, destinata alla massa indistinta, fornisce prodotti d’apparente mediocrità, zeppi di tette, culi e storie truculente (compreso il giornalismo “di livello”, che indaga morbosamente sulle sevizie subite dalla ragazzina ammazzata).

Ma di che si occupava il tanto celebrato romanzo ottocentesco? E non lavorò a strappar la commozione il gran genio di Hugo? Le tette delle veline fan storcere la bocca (magari sbavante) allo stesso pensoso critico che ricorda con nostalgia l’epoca della rivista. Perché, che cos’era la rivista se non tette e culi nei limiti dell’allora consentito dal comune senso del pudore? Io ci sono stato (la mia regione d’origine mi ha consentito di vivere nel passato remoto), ho visto due film di seguito e, nell’intervallo, ho fischiato il comico e reclamato la ballerina. Non lo ricordo come il comportamento di un accademico dei Lincei. E che dire del caso della contessa Casati, morta ammazzata a fucilate dal marito che era solito osservare i di lei incontri amorosi? O del caso della giovane Montesi, ritrovata defunta sulla battigia di Capocotta? Fu la stampa compassata e censurata dell’epoca a raccontar questi fatti, con tutta la morbosità possibile.

Questo per dire che il moralismo, nella comunicazione come nel resto delle cose umane, è una prerogativa delle persone senza etica.

Tutti questi mezzi, dal volgare alla televisione, sono serviti a rendere accessibili le informazioni ad un numero sempre maggiore di persone, con ciò stesso promuovendo la cultura, anche quella che pretende di vestirsi con la C maiuscola. Dalle mie parti la lingua italiana è arrivata con la televisione (i matrimoni “misti” erano arrivati con la leva obbligatoria), non con la scuola.

Certo, non tutti quelli che guardano Maurizio Costanzo poi leggono un libro, e non tutti quelli che leggono un libro lo scelgono al di fuori delle collane rosa, nere o gialle. Ma tutti noi siamo figli e nipoti di un’Italia analfabeta, il passo avanti è evidente. Il che vale anche per il resto del mondo a noi omogeneo (anche il francese del Midi lo era, mentre il belga, secondo i francesi, lo è ancora; l’inglese delle campagne viveva isolato dal mondo, anche se pensava che fosse il mondo ad essere isolato; il tedesco, o, meglio, il germanico, non parlava la lingua dei suoi filosofi: Londra, Parigi, Vienna, Praga, Roma, erano delle isole).

Questo lavoro non è ancora stato completato. Israele è una grande democrazia assediata, l’unica democrazia in quell’area del mondo, ma non è un territorio isolato perché tutta la sua popolazione è bilingue. Da noi, oramai, un veneto ed un siciliano si parlano senza problemi (almeno che uno dei due non sia stronzo), lo stesso fanno quelli d’Edimburgo e quelli di Londra, quelli di Marsiglia e quelli Bordeaux. Ma non riescono ancora a farlo fra di loro. I nostri giovani sono già più avanti: consumano più o meno le stesse cose, ascoltano la stessa musica, calzano le stesse scarpe (sarebbe bene che tutti si riflettesse sul fenomeno Camper).

Certo, questo può essere visto, negativamente, come massificazione. Ma si tratta di un’interpretazione piuttosto superficiale. Anche la lingua, come canone espressivo unico, può essere definita massificatrice, ma si tratta di santa massificazione, che consente la comunicazione fra diversi e distanti.

Diciamo, allora, ed è questo che avvia la riflessione sul futuro, che tutti questi sono solo strumenti, sono mezzi e non contenuti. Utilizzarli in un senso o nell’altro è il derivato della cultura di un popolo, la capacità del singolo, il frutto di un’evoluzione. La comunicazione politica ebbe il suo grande teorizzatore in Goebels (ministro della propaganda di Hitler), questo non c’impedisce di farne, oggi, uno dei cardini della democrazia.

La comunicazione di massa, broadcasting, ha ancora del lavoro da svolgere e interi territori da scoprire, ma le democrazie evolute, i paesi ricchi, già maturano esigenze che la superano. Come sempre, esigenze latenti trovano sbocco effettivo quando individuano soluzioni tecnologiche favorevoli.

I ragazzini di una volta, ancora fino agli anni sessanta, crescevano in comunità di coetanei. Era così in campagna, ma lo era anche dopo l’inurbamento, con i palazzi dotati di grandi cortili, spesso confinanti con il verde (non attrezzato e rurale), con le parrocchie a far da centri sportivi ed ospizi durante le ore di lavoro dei genitori. I loro coetanei dei decenni successivi videro cambiare il sistema di vita: fine dei cortili, fine della strada come territorio praticabile, fine della parrocchia (sempre più abitata da extracomunitari che ripercorrono tragitti dagli altri abbandonati, su questo nessuno riflette), la scuola “ridotta” a luogo d’apprendimento, divisa da casa da strade non attraversabili. Molti di quei ragazzini, a quel punto, sono cresciuti davanti al televisore, assorbendone cultura e canoni comunicativi. Oggi le cose cambiano: la comunicazione personalizzata, mobile ed a basso costo ha consentito la nascita d’autentiche comunità virtuali, mediante le quali si ricrea lo spazio dell’accordo e della complicità, magari solo per fissare la festa o la partita di pallone. Non è poco. Dire che quei ragazzini sono matti, perché usano così massicciamente gli sms, equivale a non capire cosa c’è dietro, ridurre a moralistica condanna del consumismo quella che è un’esigenza di comunicazione.

Questo cosa significa? Significa che gli strumenti della comunicazione tecnologicamente mediata vengono utilizzati per ricreare il tessuto paesano. Significa che quegli strumenti rendono nuovamente possibile un interscambio diretto d’informazioni e sensazioni, superando l’ostacolo che la città pone alla mobilità fisica.

Ecco il paradigma della comunicazione del futuro: flusso informativo continuo, desiderio d’interazione personalizzata.

C’è gente che si alza di notte per assistere ad una regata, o ad una corsa automobilistica. Che senso ha? Si, certo, ci sono gli appassionati, ma questo non spiega il numero e, tutto sommato, neanche il sacrificio. Ciò che spinge queste persone non è l’interesse per questo o quell’evento, ma il desiderio di esserci nel mentre quell’evento si produce. L’idea che, al buio, qualcuno attenda che si alzi il vento nell’altro emisfero, così gonfiando le vele delle due imbarcazioni in gara, è assurda, folle, se letta con i soli strumenti della convenienza e dell’efficienza; non lo è affatto se si adotta il canone della presenza. Vederla la mattina dopo, appena in piedi, all’oscuro dei risultati, sarebbe più conveniente ed efficiente, ma non sarebbe affatto la stessa cosa.

Però, chi ha tanto desiderio di presenza deve poi subire l’umiliazione della solitudine: c’era, ma nessuno se n’è accorto. Date a questo Tizio la possibilità di “parlarne” con altri che, come lui, ci sono, dategli la possibilità di tifare, di sfottere i perdenti, di domandare perché di bolina i suoi amati sono andati male, e ne avrete fatto un Tizio felice. Tanto da essere disposto a pagare.

Oggi siamo ai primi passi. Solo adesso si predispongono format che consentono al pubblico a casa di “fare qualche cosa”: votare, influire, applaudire o dissentire. E’ solo un vagito, niente a confronto del discorso futuro. L’interazione, l’espressione personale diretta ad altre persone, è il contrario della massificazione, e poco importa che questi processi vengano innescati da prodotti concepiti per dirigersi alla massa indistinta.

Apriamo una parentesi, parliamo di cucina. Il gusto è cultura. Ebbene, il nostro è il mondo in cui si reclamizza la possibilità di avere il cacciucco surgelato. Roba abominevole, dirà qualcuno, non a torto. Ma quel prodotto va bene per chi non sa o non ha tempo per cucinare, così, a questa gente, si offre la possibilità di non mangiare solo pane e tonno in scatola, ma anche verdure saltate in padella, o zuppe, o carni ripiene. Nello stesso identico mondo, però, le televisioni trasmettono ore ed ore di ricette, di cuochi che si esibiscono in piatti complicati, suggerendo trucchi e modalità di cottura, spiegando come si stende una sfoglia. Com’è possibile?

E’ possibile perché evoluzioni tecnologiche e sistemi di comunicazione rendono realizzabile la convivenza d’esigenze opposte. Lo stesso sistema industriale alimenta desideri ed esigenze apparentemente incompatibili.

Si vada in un supermercato “di lusso”. Si troverà il precotto e l’ingrediente esotico, il Bacardi svilito a bibita prearomatizzata e il succo di canna da zucchero (prima introvabile) per preparare un Daiquiri con i fiocchi. L’errore sta nel credere che il mondo vada in una direzione, qualsiasi direzione, mentre l’unica direzione di marcia è quella di far aumentare le possibilità di scelta.

La cucina italiana degli anni sessanta, quando finalmente si ebbero in tasca i soldi per offrire ai bimbi la mitica “fettina”, era assai più omologata e massificata di quella d’oggi. Gli apocalittici teorizzatori del regresso e della massificazione dovrebbero mettersi ai fornelli, ed imparare qualche cosa.

Seconda parentesi: chi non conosce il lavoro di Stephen Hawkingperde molto, del mondo, del pensiero e della cultura contemporanei. Hawking scrisse un libro apparentemente difficile, ma che si trovò per quattro anni in testa alle classifiche di vendita. Cosa diceva? Diceva: la riflessione sull’astrofisica è una cosa troppo importante, troppo decisiva e rilevante per lasciarla solo ai pochi che sanno risolvere determinate equazioni, quindi io vi metto tutti nella condizione per capire e per pensarci. Intendiamoci, mica si tratta di Piero Angela, ma del signore che mise a punto (con Penrose) la teoria del Big Bang (per poi giudicarla errata), e studiò più d’ogni altro i buchi neri.

Questo prodotto della comunicazione ha avuto un grande successo nello stesso mondo che tributa onori ai quiz. Si dirà: ma non nella stessa misura. Accidenti, stiamo parlando d’astrofisica, una materia riservata a pochissimi studiosi.

Se la cucina non ha un’unica direzione di marcia, non si vede perché dovrebbe averla il mondo della comunicazione. Chi ha vissuto in un paese sa cos’è una piazza: è il luogo dove ci s’incontra, ci si da appuntamento, si chiacchiera, o, magari, ci si riunisce in un crocchio, disputando di calcio o di politica. La piazza è resa possibile dal fatto che nessuno dei paesani vi si presenta con un impianto d’amplificazione assordante, dal fatto che se parla uno non necessariamente si deve zittire l’altro. Il futuro della comunicazione è la piazza del paese.

In quel futuro ancora non ci siamo, e quel che colpisce del presente è la sua diseconomicità.

Abbiamo visto che c’è chi si alza di notte per vedere uno spinnaker gonfiarsi, vuole esserci “nel mentre che”. Ma lo spettatore affascinato dalla ricetta della pernice con le castagne non sa che farsene della spiegazione alle 11 del mattino, quando la sola idea della pernice frollata gli chiude lo stomaco, vorrebbe poterne disporre tre giorni dopo, nel pomeriggio, quando si appresta a tagliarsi le dita con le castagne, mentre la pernice si affloscia sfatta e non sta su come nella trasmissione di tre giorni prima. La televisione d’oggi (analogica o digitale, terrestre o satellitare), a quel signore, non sa dire altro che: scemo, dovevi registrare la trasmissione, o, almeno, prendere appunti. La Sora Lucia è passata per la piazza del paese, ha declamato la ricetta ed è fuggita via. Un comportamento irragionevole ed asociale.

Le parole hanno una loro magia. Su questo tema lavorò il genio linguistico di Borges. Ebbene, come viene chiamato l’insieme delle programmazioni di ciascun canale televisivo? Palinsesto. Credo che pochi sappiano cosa vuol dire, ed ancor meno si rendono conto di quale tesoro si nasconde dietro la comprensione di quel nome.

Il “palinsesto” è una pergamena dalla quale qualcuno ha cancellato quel che vi era scritto, per potervi scrivere un testo nuovo. Ogni volta che il palinsesto viene riscritto il passato si perde. Quel che la televisione trasmette divora quel che la televisione ha già trasmesso. Il cannibalismo è così traumatico da avere favorito un nuovo genere televisivo: la televisione di una volta, quella cancellata.

Lo sciocco entra in una casa dove ci sono molti libri e domanda: li hai letti tutti? Allo sciocco si risponde: solo la metà, l’altra metà devo leggerli entro domani, quindi sei pregato di toglierti da torno. Lo sciocco non immagina che il valore della biblioteca è proprio nell’essere tale, nell’essere accessibile e consultabile, non nell’essere stata letta. Quello sciocco, forse, è stato cresciuto dalla televisione che divora e dimentica quel che ha trasmesso, dilapidando il valore della memoria e della consultazione.

In futuro questo scempio non sarà consentito, e le cose che ebbero valore quando furono trasmesse troveranno nuovo valore (aggiunto) nel divenire nuovamente accessibili. La televisione attende ancora il suo bibliotecario, capace di dividere e catalogare, trasformando in sapere un magazzino disordinato.

Chi è vissuto in paese, dicevamo, sa cos’è una piazza, e ne conosce anche il difetto principale: in piazza s’incontrano sempre le stesse persone, quindi, alla fine si parla sempre delle stesse cose (corna e sesso). Questo, forse, spiega la fuga della Sora Lucia. Delle due l’una: o si scappa dalla piazza, o la piazza si allarga. In paese la seconda possibilità era esclusa, la tecnologia della comunicazione la rende possibile.

Si dirà che questo è già avvenuto, con Internet. Non è vero.

Una poesia di Renzino Barbera evoca l’incubo della Sicilia brancatiana: con la tale signora, dice, “ci s’addiverte mezza Catania”; triste riflette il poeta “sugnu sempre ?nta metà c’un s’addiverte mai”. Internet funziona allo stesso modo: pare che ci siano un’infinità di meraviglie, ma non so mai dove si trovano. Si fanno mille discussioni interessanti, ma non riesco mai a seguirle. La piazza è divenuta una quasba (casba), ove la gente si rimpiatta per parlare, sussurra dietro l’angolo, s’incappuccia per non farsi riconoscere, rendendo più facile il contrabbando che lo scambio d’idee ed informazioni. Per questo non è vero che Internet è già una grande piazza.

Il futuro sarà a portata di mano quando potrò dire: signori, mi occupo d’ornitologia, e quelli con la gabbietta in mano si volteranno a guardare il collega. Oggi, al massimo, posso mettere la mia passione su un motore di ricerca, con il risultato di venir consultato più dai pornofili che dagli amanti del pettirosso.

Prima dell’11 settembre 2001 le autorità che si occupano della sicurezza, negli Stati Uniti, disponevano di una sterminata quantità d’informazioni sulle possibili attività terroristiche nel loro territorio federale. Si sono lasciati sfuggire un piccolo esercito e quattro aerei di linea. Troppe informazioni equivalgono a nessuna comprensione.

Gli avvocati ci si guadagnano da vivere. Voi domandate: posso parcheggiare sotto casa mia? E loro rispondono: occorre tenere conto del combinato disposto fra il Testo Unico di Pubblica Sicurezza ed il Codice della strada, così come emanato lo scorso anno, senza, però, dimenticare di tener presenti le delibere comunali, in continuo aggiornamento, concernenti la viabilità.

La radice di questi comportamenti è chiara: il sapere è potere, e non mi piace dividerlo con altri. Però il sapere s’immiserisce, se non si allarga sempre più il numero di quelli che possono concorrere ad edificarlo. L’informazione è la premessa del sapere. Se voglio rendere migliore il mondo, quindi, dovrò spostare sempre più l’intelligenza verso la rete, e mi servirà un’intelligenza didascalica, capace di agevolare la ricerca, non interpretativa.

Non mi serve (o non mi serve solo) conoscere mille pareri sulla partita disputata, voglio poter vedere l’azione e farmi un’idea circa l’esistenza o meno del fuori giuoco.

Se il mondo disponesse di un simile approccio alla fruibilità ed all’uso dell’informazione molte tragedie non troverebbero l’innesco del detonatore.

Il diciannovesimo ed il ventesimo secolo hanno trovato il sistema comunicativo utile per strappare alle religioni la lettura della realtà, e la riflessione sul futuro. Quel sistema si chiama “ideologia”. “Quelli che ti spiegano le tue idee senza fartele capire”.

La fine del ventesimo secolo ha portato con se la rottura dell’equilibrio ideologico, che non a caso aveva un riflesso militare nella minaccia nucleare. E’ stato un gran bene. Oggi, però, ci accorgiamo che il venir meno di quell’equilibrio ha allontanato la prospettiva di conflitti devastanti, ma reso possibile il fiorire di conflitti che, per l’essere locali, non son meno terrificanti. Questi conflitti interagiscono direttamente con il sistema della comunicazione.

I ceceni occupano un teatro e sequestrano gli spettatori non certo perché pensano seriamente di ottenere il ritiro delle truppe russe, ma perché cercano visibilità comunicativa. Quell’azione è il frutto di uno sciagurato accordo precedente: in cambio di solidarietà su altri fronti i russi potranno agire in Cecenia senza essere osservati.

Gli stessi attentati dell’11 settembre non sono un atto di guerra convenzionale, sia pure portato da truppe irregolari, ma un atto di guerra mediatica.

Questo ci dice che le congiure del silenzio portano al rumore delle bombe. Da questo non deriva che, per evitarne i nervosismi, si debba dare ai pazzi lo spazio di massimo ascolto. Ma significa che se si fanno mancare le fonti d’informazione si fa il giuoco dei pazzi (che, magari, non appaiono poi tali) e si umilia la resistenza di chi ha giuste cause da difendere.

L’ottocento fu il secolo delle indipendenze nazionali, delle costruzioni statali. Dai lumi settecenteschi ereditò il bisogno di trovare spazi di diritto ed esercizio di diritti per i cittadini. Il novecento è stato segnato dall’incubo ideologico del potere sulle masse. La sua seconda metà ha dovuto codificare, in trattati internazionali, le norme della sopravvivenza individuale e quelle delle dinamiche democratiche collettive. L’abbozzo della Società delle Nazioni non ha ancora figliato quel sistema di relazioni capace di regolare pacificamente i conflitti, ma, in compenso, comincia a prendere forma qualche cosa di simile ad un’opinione pubblica mondiale. Chissà quando se ne renderanno conto, ma i ragazzi che si mobilitano dietro le bandiere no-global sono una delle principali vittorie di quel meraviglioso processo di libertà che va sotto il nome di globalizzazione.

All’interno di ciascuna democrazia le opinioni pubbliche contano, qualche volta pure troppo.

Ricordate l’esperienza delle Brigate Rosse? Vi furono, in quell’organizzazione, infiltrazioni capaci di condizionarne le decisioni, ma i militanti che rischiarono ed in molti casi persero la vita erano realmente, “sinceramente” schiavi di un’allucinazione ideologica. Quand’è che l’allucinazione dovette piegarsi alla realtà? Quando il generale Dalla Chiesa fece fuori a sangue freddo dei brigatisti in un bar di Genova? No, quando quei militanti dovettero prendere atto che non la congiura del SIM (Stato Imperialista delle Multinazionali), ma l’opinione pubblica, le persone, gli operai, avevano orrore di un’organizzazione che andava ad ammazzare gente come Guido Rossa o Valter Tobagi. L’opinione pubblica contò, nello sconfiggere le BR, proprio perché non fu più possibile alimentare l’equivoco che si trattasse di rivoluzionari seriamente intenzionati a far del bene.

Ecco, purtroppo l’opinione pubblica mondiale conta ancora troppo poco. Un po’ perché mancano referenti con cui dialogare, ma, soprattutto, perché mancano processi formativi ed informativi.

Se quell’opinione esistesse la Palestina vivrebbe in pace. Se quell’opinione esistesse la Cecenia dovrebbe condannare i criminali, ma potrebbe contare sulla propria indipendenza. Se quell’opinione esistesse non sarebbe difficile distinguere un mussulmano da un assassino, l’Islam da una dottrina d’odio; così come, nonostante la storia, oggi non si confonde un gesuita con un assassino, il cattolicesimo con una teoria di sterminio.

L’umanità ha un nemico, e sono le “madrasse”, di qualsiasi colore e credo, le scuole ove si formano i bambini ed i ragazzi ponendo sui loro occhi le lenti colorate. Quelle scuole formano tanti emuli dei catari, i mattoidi che dividevano il mondo in bianco e nero, giusto e sbagliato, vero e falso. Insegna ai ragazzi che esiste il male, ed i migliori di loro, i migliori, cercheranno la morte per sconfiggerlo.

Ma se l’informazione circola, se la rappresentazione del mondo è plurale, nei modi e nelle forme modellatisi in millenni (storia, teatro, racconto, poesia, musica), allora ciascuno tocca con mano il relativismo del mondo: ammiro mio padre, ma vedo le sue debolezze; sono leale con i miei amici, ma riconosco i loro errori; amo una donna, ma conosco i suoi difetti; amo il mio paese, ma non mi sfuggono le sue arretratezze; rispetto le leggi, ma chiedo che siano cambiate quelle sbagliate; e così via. Il male sta nel bene ed il bene nel male, non c’è una linea di confine che possa essere piantonata, l’amore e l’odio sono vicini (come avvertiva l’antico poeta) perché parte del sentire della stessa persona. Se ciò che serve a formare questa consapevolezza circola, allora a ciascuno sarà chiaro che vale la pena vivere, magari lottare, magari scontrarsi anche in modo feroce, ma non vale la pena morire, né procurare la morte, perché quella segna la sconfitta di tutti.

L’informazione broadcasting può ancora essere utilizzata per alimentare il fanatismo, e l’unico antidoto è il pluralismo, ovvero l’accesso a fonti diverse (abbiamo ancora bisogno di Radio Londra). Ma l’informazione multipuntuale, quella che caratterizza la piazza del paese, quella che consente a ciascuno di ascoltare e parlare con tutti, quella è in grado di cambiare il mondo.

Contrariamente ai fomentatori di disgrazie, penso che, tutto sommato, è in quella direzione che ci stiamo muovendo. Il cammino è fatto di tante contraddizioni, compresa quella che Internet diventi un sistema di comunicazione fra terroristi. Ma è normale che sia così: ai servizi di sicurezza il compito di scoprire le devianze nell’uso della comunicazione, alla comunicazione il compito di far evaporare l’acqua nella quale nuotano i pazzi.

Sarà, quindi, l’informazione a spianare la via alla pace perpetua? Non si dicano corbellerie. Chi pensa alla pace perpetua deve, evidentemente, essere uno senza famiglia e senza condominio. No, il conflitto, talora l’odio, sono parte della nostra natura. Quel che l’informazione può fare è bucare il palloncino degli odi artefatti ed immaginifici. In fondo, mi sta bene un mondo in cui due non si ammazzino perché di religioni diverse, mentre vadano ugualmente in galera perché hanno soppresso la cognata.

Vabbe’, ma i soldi dove stanno? Qual è la trovata tecnologica che consente di rendere felice l’umanità, mettendole le mani nel portafogli? Qui il tecnologo deve fare uno sforzo per capire che il suo ruolo non è centrale: ci sono popoli che scoprivano la scrittura e fondavano una cultura, altri che scoprivano la scrittura e ci decoravano le tombe; gli indiani avevano i numeri (che non sono arabi, sono indiani), ma non avevano la matematica; c’è chi ha scoperto la ruota ed ha avviato spostamenti e civiltà, altri che l’anno scoperta e basta. Lo strumento tecnologico diventa miracoloso se incontra un bisogno da soddisfare, un sogno da coronare, altrimenti rimane freddo, in attesa di tempi migliori.

Vedo che la televisione insegnò a mia nonna l’italiano, ma che proprio perché adesso è acquisita la lingua comune è maturo il tempo per dedicare le forze alla salvaguardia delle lingue “minori”. L’informazione che va dal grande al piccolo userà le teste per venderle ai produttori di beni di consumo. L’informazione che muove valori fra le persone porterà a disvelare delle miniere d’oro.

L’automobile è stata un fenomeno mondiale perché ha saputo parlare ai bisogni ed ai sogni dell’uomo: prendila e vai dove ti pare, quando ti pare. Poi tutti sono andati nello stesso posto alla stessa ora, incolonnandosi, ma lo hanno scelto loro, per quanto paradossale possa apparire. La comunicazione deve parlare lo stesso linguaggio: farà più soldi di tutti chi riuscirà a creare un mercato C2C, senza per questo sopprimere gli altri due.

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