Economia

Competizione simulata

Competizione simulata

A frenare lo sviluppo non ci sono solo le arretratezze legislative e dell’organizzazione pubblica, ci sono anche quelle di un mercato economico che preferisce la rendita alla competizione. La politica è, a ragione, nel mirino delle critiche, ma altrettante ne merita il nostro capitalismo, spesso impegnato a investire nei mezzi di comunicazione al fine di garantirsene reticenza e omertà. In qualsiasi lussuoso convegno si metta piede, fra uno speech e un coffee break, si sprecano le frasi fatte su quanto sia importante la rete di telecomunicazioni per l’ammodernamento e la competitività del Paese, e i medesimi luoghi comuni ritornano nelle interviste dei più altolocati papaveri del settore. Ma non si pianta un chiodo e non si fanno passi in avanti, nel mentre l’intera filiera finisce in mani straniere.

Lo stesso ex monopolista, chiamato ad illustrare i propri programmi l’Autorità delle comunicazioni, parla di una rete ad alta velocità, per il 50% della popolazione, entro il 2018. Oltre tutto, è la stessa metà degli italiani che già dispone dei migliori servizi. Ed è anche logico, perché le società puntano al profitto proprio, non a quello collettivo.

Il sei gennaio scorso, oltre alla calza della befana, i lettori trovarono un mio articolo, nel quale annunciavo che oramai era fatta, Telecom Italia era al capolinea e sarebbe finita, di lì a poco, nelle mani degli spagnoli. Sono passati sei mesi, non è successo niente, pertanto si può dire che mi sbagliavo. Ma non è proprio così, perché le banche che controllano Telecom erano pronte a quella vendita. La novità, da allora ad oggi, non è che qualcuno abbia stabilito con chi e cosa, diversamente, fare di Telecom, è successo, piuttosto, che la crisi e i debiti hanno fiaccato le gambe degli spagnoli. Per giunta impegnati a conquistare, soffiandolo ai portoghesi, Vivo, l’operatore mobile brasiliano che agisce in concorrenza con Telecom. Il che ha fatto dire a Marco Fossati, terzo azionista di Telecom, che, a questo punto, il conflitto d’interessi va risolto mettendo alla porta gli spagnoli, un competitore che non compra, ma impedisce ad altri di comprare.

Nel frattempo, a equilibrio proprietario invariato, le quotazioni di Telecom sono scese sotto ad un euro per azione, portando il valore di Borsa sotto i 20 miliardi, il che la rende una preda abbrancabile (se non fosse “difesa” dal suo imponente debito). Ed è un errore credere che tutti i predatori hanno già troppe gatte e troppi debiti da pelare, perché c’è una parte del mondo che corre. Potendoci alleare con i tedeschi o con i francesi, avendo scelto di far entrare gli spagnoli, ma senza consentire loro alcun ruolo, non è escluso il rischio di finire in mano a finanzieri d’altra natura e provenienza.

Nel frattempo noi discutiamo ancora di “società delle reti”, vale a dire dello stesso tema sul quale si scontrarono Marco Tronchetti Provera e Romano Prodi, con la rinnovata pretesa, da parte della politica, di avere venduto Telecom, aver fatto (misera) cassa e continuare a compiere scelte che non le competono. L’attuale governo, del resto, è partito commissionando uno studio per capire cosa fare delle telecomunicazioni italiane. Ne sono derivati due scenari (investimenti per la larga banda, o ammodernamento della rete esistente) e due diverse versioni societarie (ciascuno investe nella propria rete, oppure si fa una società per mettere gli sforzi a fattor comune). Siamo a metà della legislatura e quegli studi sono andati ad arricchire la scarsa fantasia dei convegnisti.

I gestori concorrenti di Telecom Italia fanno capo a gruppi non italiani. Nulla di male, è il mercato. Alcuni di questi si sono messi assieme ed hanno formulato una specie di minaccia: se rimane ancora tutto fermo, faremo noi una rete veloce, alternativa a quella di Telecom. L’avessero fatta a me, l’avrei presa come una promessa, perché significherebbe capitali stranieri investiti per la nostra modernizzazione. Siano i benvenuti. Anche perché l’impressione, fin qui, è di avere a che fare con un mercato a competizione simulata, dove la necessità di mantenere comunque in piedi Telecom consente agli altri di lavorare investendo poco, quindi portando via valore. Il sospetto è che la “minaccia” sia legata alla fissazione delle tariffe d’interconnessione, ovvero al prezzo che gli altri pagano per utilizzare la rete Telecom. Risolto quel nodo, non è escluso che anche gli istinti competitivi s’addomestichino.

Intanto, i miei occhi vedono una realtà diversa: se metto assieme le reti in fibra possedute dallo Stato, quelle su cui la pubblica amministrazione, in un modo o nell’altro, ha diritti esclusivi e quelle su cui sono stati dilapidati quattrini degli enti locali (che non sanno più cosa fare), e se a quelle attacco estensioni in radiofrequenza, riportando il WiMax alla sua reale funzione (sottraendolo all’insulso spezzatino che ne è stato fatto), ottengo, in breve tempo (un anno) e con pochi soldi (meno di un miliardo), una rete a larga banda che serve l’80% della popolazione. Se ci sono idee migliori sarebbe bello discuterne, ma non è migliore la condotta di discettare senza realizzare.

Ma servono, le reti veloci? Fornisco una risposta eterodossa: alle società che gestiscono il settore no, tanto è vero che vi sono indotte dalla concorrenza non dallo spontaneo desiderio, mentre al resto dell’Italia sì. Per incassare le bollette basta quel che c’è, ma per consentire, specie ai più giovani, di aprire finestre commerciali nel mondo no. La materia di cui parliamo, la ricchezza che bruciamo, restando fermi, ha a che vedere con la creatività e la competitività. Insomma, per non dilungarsi ancora, ha un senso che il settore tessile subisca la concorrenza di chi paga meno costi fissi e ha meno vincoli ambientali e umani, ma non ha senso che noi ci si rassegni ad essere solo consumatori d’idee altrui, come se solo Steve Jobs (di cui sono cliente) sia in grado d’innovare prodotti e modelli di business. Ma, di certo, non saranno i nostri giovani a fargli concorrenza, visto che li abbiamo ridotti ad essere meri consumatori improduttivi, capaci di scriversi “tvb”, ma incapaci di compitare le pagine del loro futuro.

Se le telecomunicazioni offrissero loro un accesso al mondo, quello vero, può darsi che l’essere tutti come quel furbacchione di Totti, che recita la parte del tontolone, non si riveli essere in cima ai loro desideri.

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