Economia

Concorrenza fiscale

Concorrenza fiscale

Siamo nuovamente in attesa di una lista di nomi, in attesa di sapere chi sono gli italiani con un conto segreto in Liechetestein. A far partire la corrida è stato il governo tedesco, che per quattro milioni di euro ha comperato un cd contenente i nomi di molti, se non proprio tutti, correntisti. I soldi, del resto, si

rimpiattano in posti segreti per due ordini di motivi: a. perché guadagnati illecitamente; b. perché così si pagano meno tasse. Il primo caso è facile (teoricamente) da risolvere: si combatta il crimine. E si tenga presente che molti quattrini frutto di reati sono riciclati anche da noi, senza ricorrere a strumenti finanziari particolarmente sofisticati.
Il secondo caso è più interessante. E’ naturale che il vasto pubblico dei cittadini a reddito fisso e frutto di lavoro subordinato s’arrabbi, perché concordiamo tutti nel sostenere che il fisco è intollerabilmente vorace, ma loro non hanno alcuno strumento per sfuggirgli. Anziché attaccare, anche moralmente, lo Stato che gli ciuccia via la ricchezza se la prendono con chi riesce a portar via qualche cosa. Il presupposto di questo atteggiamento è un falso scolastico: non è vero che se pagassimo tutti ciascuno pagherebbe meno, perché se pagassimo tutti lo Stato incasserebbe e spenderebbe di più. Non di meno la diversa struttura del reddito crea un’ingiustizia, offrendo solo ad alcuni l’opportunità d’essere sleali con il fisco. L’ideale è un fisco assai meno esigente, con aliquote massime assai più basse, senza trucchi con le imposte aggiuntive, e severità con chi fa il furbo. Ma si tratta di una cosa talmente ovvia che non voglio entrare in concorrenza con il programma veltroniano.
Vorrei fare osservare, però, che molti di quelli che aprono un conto corrente in qualche paradiso fiscale sono dei proletari dell’evasione fiscale. Sono quelli che portano via i risparmi, o che si fanno pagare le parcelle all’estero. E sono quelli i cui nomi finiscono nelle liste che ora si attendono. Mentre nella finanza più ricca si pubblica come notizia normale che un gruppo editoriale quotato in borsa abbia trasferito il suo cuore altrove, per ragioni fiscali. E si è detto che era segno di deprecabile provincialismo la nostra battaglia contro le scalate in borsa condotte con veicoli finanziari non solo residenti in paradisi fiscali, ma colmi d’anonimi, protetti dal segreto dei paradisi dell’opacità. E si ammetterà che se un tal capitano coraggioso può rilasciare interviste sulle sue prodezze, osannato dagli intervistatori carponi, senza che nessuno gli chieda conto dei soci e della bravata fiscale, è poi ridicolo che ci s’appresti ad impalare sulla piazza mediatica quelli che in Liechtenstein hanno messo i soldi propri.
E non basta: la concorrenza fiscale è una buona cosa. Non è una buona cosa che un Paese si presti ad agevolare i cittadini sleali di un altro Paese, ma è naturale che i soldi, come gli investimenti, il lavoro ed anche le persone, tendano ad andare dove vengono trattati meglio. L’Irlanda è un esempio virtuoso di riuscita concorrenza fiscale: hanno agevolato gli investimenti, detassato i profitti, liberato dai vincoli il mercato del lavoro e sono passati da un’economia povera ed agricola ad una ricca, finanziaria ed industriale. Sempre bevendo dell’ottima birra scura.
Tutto questo per dire che è attitudine medievale quella di credere che sia la paura il miglior deterrente all’evasione. Anzi, spesso uno Stato rozzo nell’incassare è anche scellerato nello spendere, dando ottima giustificazione a chi non intende alimentare la scelleratezza. L’idea che gli italiani paghino (come ha sostenuto Prodi) perché sanno che il ministro è inflessibile e cattivo, somiglia all’illusione di preservar la virtù delle fanciulle grazie ad una mamma occhiuta: “mamma, Ciccio mi tocca”. Basta un attimo: “toccami, Ciccio, che mamma non vede”. E si sa come va a finire.

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