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Confusindustria

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Confindustria fu potente, divenne dolente, ora è decadente. Era potente quando sosteneva il protezionismo, salvo accorgersi che le imprese italiane crebbero dopo che fu cancellato. Ha vissuto una lunga stagione di lamentazioni, pur fondate, ma non per questo capaci di portare risultati. Oggi la corsa per il rinnovo della presidenza mette in luce debolezze considerevoli. In fondo è solo uno degli aspetti della più generale crisi dei corpi intermedi: erano, in realtà, corpi intermediatori di spesa pubblica, produttori di accordi e pace sociale in conto terzi. Diminuita e tendenzialmente scomparsa la cassa pubblica da gestire, s’infiacchiscono irrimediabilmente.

Non che non ci sia altra ricetta e funzione che non la spartizione della spesa pubblica. Anzi, vi sarebbe la sana rappresentanza e difesa degli interessi di categoria, necessariamente antagonisti con gli interessi di altri. Ma il costume nostrano vuole che si abbia in uggia lo scontro fra interessi (che è il succo della libertà e della democrazia), preferendo la retorica dell’accordo. Non a caso la concordia non la si trovava nel punto di equilibrio fra interessi diversi, ma nel prevalere di entrambe, a spese del contribuente. Singolare effetto di questa mentalità è che il segretario della Fiom, il sindacato dei lavoratori metalmeccanici, Mario Landini, si veda costretto a ricordare che lui non appoggia nessun candidato alla presidenza di Confindustria. A chi mai è potuta venire in mente una cosa simile? A uno dei candidati (Alberto Vacchi), che alla stampa aveva anticipato cotale sintonia.

Sarebbe, naturalmente, più sano e utile discutere, anche pubblicamente, non delle battute e delle biografie (contano, ma non possono essere tutto), ma anche dei programmi. Del cosa ciascun candidato ha in testa di volere fare. Ma è su tale punto che Confindustria ha raggiunto una vetta surreale, chiedendo ai candidati di tacere pubblicamente. Speriamo, all’ingresso, non chiedano anche di pronunciare la parola d’ordine: libera Cornovaglia, Cornovaglia libera. Sta di fatto che, in assenza di programmi, quel che si vede è che i candidati sono quattro, di cui due da tempo coinvolti nella vita associativa, che, evidentemente, è per loro una passione, o una professione. Gli altri due hanno imprese importanti (benché non grandi): uno è noto per la sua burbera intransigenza, l’altro è il già citato. Nell’insieme, tranne il bresciano Marco Bonometti, nostalgico a lunga gittata, i candidati sembrano riscuotere maggiori apprezzamenti nella sinistra che fu al governo, salvo essere stata rottamata. Nulla di male, per carità, ma non il viatico migliore per sperare di tornare a intermediare, visto che al governo siede un capo del Partito democratico che non ha esitato a tagliare fuori i sindacati dei lavoratori. Dopo avere elogiato la Fiat per essere uscita da Confindustria. In una situazione simile, per contare, occorrerebbe avere le idee chiare. Ma, come detto, manco i programmi si possono conoscere.

E sì che di materia ce n’è, per chi si senta rappresentante degli interessi dell’Italia produttiva. Intanto occorrerebbe avere in prima fila il pezzo d’industria che esporta, dando voce alle esigenze delle 2000 aziende che ancora ci rendono potenza industriale. Poi occorrerebbe fare della nostra scarsa crescita, dopo una recessione nettamente superiore a quella altrui, non il tema di una geremiade, ma il fulcro di un ragionare che non punti a qualche defiscalizzazione e a qualche agevolazione, ma a una coerente politica economica e industriale, che riporti l’Italia a correre, laddove arranca. I corpi intermedi, sindacali, ma anche sociali e del tempo libero, nacquero quale filiazione dei partiti, in una sorta di emulazione democratica della struttura corporativa fascista. Con i partiti scomparsi da venti anni, sostituiti da agenzie elettorali, quella roba non serve più a nulla e non funziona. O ci se ne rende conto, correggendo rotta e condotta, o ci si rassegna alla faconda superfluità.

Pubblicato da Libero

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