Quando, alla fine di febbraio, avremo finito di contare i voti dovremo tornare a fare i conti con i problemi irrisolti. Quelli dell’economia in primo luogo. Negli Stati Uniti è in corso la guerra politica del debito pubblico, cresciuto del 60% in soli cinque anni. Problema serio, per gli amici a stelle e strisce, ma senza dimenticare la grande differenza rispetto all’Europa dell’euro: loro governano la moneta e le iniezioni di liquidità hanno evitato la recessione. Che avvelena, invece, le nostre contrade. Ricordiamoci dell’estate 2011, quando attorno al tetto del debito statunitense si aprì, come ora, uno scontro durissimo. Poi trovarono l’accordo e la speculazione sui titoli del debito pubblico abbandonò le sponde atlantiche e sbarcò da noi, infiammando gli spread.
In Italia ci si contendono le penne del pavone, litigando su a chi vada il merito di avere domato quella crisi. Discussione oziosa: a. perché non è domata; b. perché l’unica politica che ha funzionato è quella della Banca centrale europea.
Fino a qualche settimana fa andava di moda sostenere che il governo Monti era stato efficace: alzando le tasse aveva imbrigliato il debito. Noi sostenevamo che non era vero, perché le tasse erano cresciute già prima, il bilancio pubblico era in avanzo primario (prima del pagamento degli interessi sul debito) già nel 2011, mentre il debito era ed è crescente. Capace di autoalimentarsi. Il centro destra aveva pudore nel rivendicare tali meriti, ben sapendo che la cura aveva aggravato la recessione. Ora la musica è cambiata, litigando su chi abbia la responsabilità della pressione fiscale crescente. Tutti.
La colpa è del modello secondo cui il gettito fiscale insegue la spesa. Una follia, alimentata da stucchevole moralismo fiscale, talché i tartassati debbano sentirsi anche in colpa. Quel modello è perdente, c’impoverisce e lascia che il debito cresca. Uno diverso non lo scorgiamo, in questa campagna elettorale. Il debito va abbattuto con le dismissioni e il modello di welfare va rivisto. Vale per tutti, ma in particolare per noi, che siamo partiti con il debito più alto e che abbiamo pagato il suo minore incremento in termini di maggiore recessione.
L’Italia è un Paese forte, ma con una classe dirigente in disfacimento. Ne usciremo, ma non è detto che le imminenti elezioni siano una tappa in tal senso.
Pubblicato da Il Tempo