Giunge al Consiglio dei ministri la bozza di un decreto legge contenente il “contratto per dare certezze ai grandi investimenti produttivi”. Proposito lodevole. Ma quel che se ne legge è deplorevole. Talora sembra che si mettano problemi reali, slogan e idee confuse in un frullatore, sperando possa uscirne una bevanda energetica. Più probabile il bibitone energivoro.
L’idea, se capisco bene, è questa: occorre dare certezze agli operatori economici, non modificando continuamente i parametri amministrativi e fiscali che essi inseriscono nei propri business plan, mandando all’aria ogni razionale valutazione del rischio. Eccellente. Ma, scusate, non è la base su cui regge il patto sociale e fiscale di tutti i cittadini? Non è la lettera e lo spirito (mai incarnatosi) dello Statuto del contribuente? Perché se così fosse avremmo un’evoluzione perversa della politica degli annunci: s’annunciano sempre le stesse cose, fidandosi del fatto che poi non si fanno.
Volendo scartare questa ipotesi, che sarebbe vergognosa, provo a immaginare reali novità. C’è un indizio: il governo dice che speciali accordi verranno offerti a chi investe più di 500 milioni (in cinque anni). Che accordi? Fiscali, mormorano. Fiscali? Non avrei obiezioni se si varasse un’aggressiva politica di tax ruling, ovvero di accordi su misura che attirino l’insediamento fiscale di società estere. Ma questo è esattamente il motivo per cui il Lussemburgo è finito sotto procedura d’infrazione. Queste è la politica che è stata contestata (a sproposito) a Junker. E seppure, con uno sforzo di fantasia, si supponga che abbiano in anima una scelta di quel tipo, chi volete che si fidi, nel mondo? Il governo che ha abbassato da 3,9% a 3,5 (con il decreto contenente anche i celeberrimi 80 euro) l’aliquota Irap, salvo poi, alla fine dello stesso anno, il 2014, riportarla dove era con valenza retroattiva, può supporre che qualcuno creda in una promessa di quel genere? Fatta in un Paese in cui qualche decina di giudici possono comunque demolirla? Una promessa in capo ad un governo che cambia le regole fiscali sui giochi e le scommesse, mentre gli operatori del settore affermano che non pagheranno perché prive di legittimità e violanti le regole precedenti? Direi che si tratta di supposizione troppo folle per essere vera. E allora?
Allora potrebbe trattarsi di un trattamento fiscale di favore, ma non diverso da azienza ad azienda, non sottoposto a rapporto contrattuale specifico. Bene, è una bella cosa. Ma se è questa, scusate, che lo fate a fare il decreto legge? Piuttosto date attuazione alla delega fiscale, che avete ancora nel congelatore. E che esista un congelatore costituzionale è idea che non smette di sembrarmi agghiacciante. Ove mai la delega non coprisse l’intera riforma necessaria, ove fosse necessario un intervento ulteriore, il minimo della serietà vuole che prima si attua quel che il Parlamento ha già votato e poi si passa ad aggiungere il resto. Altrimenti ne viene fuori la solita legislazione rococò, che è l’esatto contrario di quel che c’è scritto nel titolo del decreto.
Perché una regola, fiscale, amministrativa o di qualsiasi altro tipo, sia stabile nel tempo occorre non solo che non sia messa nelle mani ballonzolanti di chi cambia idea ogni cinque minuti, ma anche che sia credibile. Alla partenza. La stabilità è un valore, ed è encomiabile che al governo se ne accorgano, dopo avere praticato la traballarietà. Ma la credibilità è un pre-requisito.
Quel che fa rabbia, osservando l’azione di questo governo, è che la gran parte di quel che annuncia è condivisibile, mentre la gran parte di quel che fa è reversibile. Una pirotecnia che abbaglia, ma lascia sul terreno solo bossoli cartonati e mezze cartucce inesplose. Il successo comunicativo è dato dal fatto che chi lo fa osservare viene schiacciato fra gli oppositori dell’orale, mentre chi tace diventa complice dello scritto. E’ un giochino vincente (fin qui), ma inconcludente.
Pubblicato da Libero