Al ventesimo calo consecutivo della produzione industriale non si può certo stare a guardare. Contrastare il credit crunch è possibile, ma prima che i soldi bisogna metterci la testa. I mercati hanno liquidità che straripa, si tratta di mettere a punto acquedotti efficienti. Standard & Poor’s ha misurato, per l’Italia, 60 miliardi di credito mancante, dall’inizio della crisi finanziaria. Soldi tolti al sistema produttivo. Sono tanti, ma sono meno della realtà, non fosse altro perché la misurazione è stata fatta a marzo e nel mese di aprile c’è stata un’ulteriore contrazione del 3,7%. Contro le banche si può imprecare a piacimento, ma invano. Sono sottocapitalizzate, il meccanismo delle fondazioni ha funzionato al contrario e anziché portare alla reale privatizzazione ha mantenuto una fallace pubblicizzazione, per giunta senza quattrini per ricapitalizzare e con la volontà di non diluirsi. Ma sono problemi che non si risolveranno in tempi compatibili con le necessità, immediate, del mercato. Servono anche altre strade.
Il finanziamento delle aziende italiane è maniacalmente bancocentrico. Ciò si deve alla scarsa apertura del mercato, ma anche alla mentalità sbagliata di molti imprenditori, non disposti ad aprire la proprietà al capitale di rischio. Diciamo che la crisi aiuta a superare questo genere d’ostacoli, perché o ti apri o chiudi. Il capitale di rischio dei fondi internazionali, venture capital e private equity, sa che in Italia ci sono molte ghiotte occasioni d’investimento, ma diffida per l’eccessivo rischio sistemico di un Paese in cui la legge è caotica, la giustizia bradipa, il fisco assatanato e i funzionari pensano di dovere fare le scelte che spettano agli imprenditori. Ce ne siamo già occupati e, ripeto, basterebbe fare un testo unico dell’impresa, un articolato snello e traducibile dei diritti e dei doveri di chi investe e intraprende, per avvantaggiarsi molto. Intanto si può comunque agire.
Le nostre imprese che esportano vanno alla grande. Cassa Depositi e Prestiti ha comperato, per una mera operazione di cosmesi bilancistica (apparente diminuzione del debito pubblico), la Sace e la Simest, che si occupano d’internazionalizzazione. E allora, passiamo dalla cosmesi ai fatti: Cdp crei un fondo per le imprese, attivabile al momento in cui si raccolgono soldi d’investitori internazionali almeno pari a quelli che ci mette la Cassa, e li impieghi, come capitale di rischio, nelle imprese cui fornisce anche i servizi e l’aiuto per affermarsi all’estero. Sarebbe un successo epocale. Quel che non funziona, in Cdp, Sace e Simest, si può subito tagliare e chiudere. I fondi che stanno a far le belle statuine possono anche essere soppressi. Qualcuno protesterà, ma chi se ne frega. Le società partecipate dovrebbero imparare la convivenza con investitori istituzionali, che è un gran passo avanti rispetto alla sopravvivenza con i prestatori bancari. Cdp dovrebbe fare i conti, come già accade in F2i (il fondo infrastrutturale italiano), con le esigenze di chiarezza e trasparenza dei grandi investitori internazionali. Questi ultimi potrebbero mettere i soldi non correndo il troppo alto rischio di dovere direttamente scegliere nel pulviscolo delle nostre piccole e medie aziende, ma utilizzando la competenza e la mediazione interessata di una Cassa che investe a sua volta i soldi.
Se Cdp li impiegasse in una società che incorpora la rete di Telecom Italia, lasciando a quest’ultima la maggioranza e, quindi, il comando, sarebbe uno spreco e uno scandalo. Così come i soldi delle banche soccorrono i grandi clienti che non stanno a galla, penalizzando chi sa nuotare ma riuscendo a nascondere i propri errori del passato, anche Cdp, in quel mondo, non farebbe che utilizzare soldi di tutti per coprire le nefandezze di una privatizzazione fatta malissimo e di privati che hanno depredato l’azienda. O la società della rete diventa soggetto indipendente, o sono affari di Telecom. O mollano l’osso o niente soldi. All’opposto, invece, i soldi Cdp, in un meccanismo come quello qui auspicato, sarebbero un moltiplicatore di ricchezza, aiutando i piccoli italiani a crescere senza chiedere un soldo alle banche, ma utilizzando servizi già pagati con le tasse e abbeverandosi ai fiumi che scorrono per il mondo.
L’Italia non amministrata da una classe dirigente interessata solo a conservare sé medesima ha i numeri per mettere il turbo, bruciare i concorrenti, occupare i mercati e attirare capitali. Tenerci una classe dirigente tremula, incapace e, come si conviene a chi ha tali caratteristiche, supponente, non so se sia un piacere, di certo è un lusso che non possiamo permetterci.
Pubblicato da Libero