Economia

Crisi accantonata

Crisi accantonata

Non c’è verso che le polemiche e gli scontri politici, a cavallo fra gli scoppi giustizialisti e i boati correntizi, si plachino, ma, fin qui, possiamo anche starci, perché la propaganda e la faziosità possono ben animare la scena democratica. Sebbene sarebbe auspicabile un maggior grado di concretezza e serietà. Il problema è che sullo sfondo di quest’opera dei pupi si dipana una crisi economica di grande portata, cui la politica assiste così come si guarda un temporale: sperando che finisca.

La gestione della spesa, soprattutto per merito di Giulio Tremonti, è stata saggia, nel senso che si è aperto il borsellino solo per lo stretto indispensabile. L’enorme debito pubblico ci ha protetti dagli errori che altri hanno commesso. L’insieme del governo, però, ha annaspato sul terreno delle riforme strutturali, indispensabili affinché la ripresa, che non sarà veloce e bruciante, non ci veda in ritardo e incapaci di prendere i refoli nelle vele. Le nostre sono strappate, da anni, tanto è vero che, negli ultimi quindici, siamo cresciuti meno dei Paesi con cui possiamo confrontarci. Siamo stati più lenti. Il fatto è che quando il vento soffia forte, anche con i buchi si procede. Quando si levano solo sospiri, invece, con i buchi non si va da nessuna parte. I capitoli d’intervento sono noti: istruzione, giustizia, mercato del lavoro, credito e pubblica amministrazione. Qualche cosa s’è fatto, ma meno di quel che si sarebbe potuto.

Nei Paesi con sistemi più elastici, quindi più esposti, la crisi ha morso in profondità. Da noi gli ammortizzatori sociali hanno funzionato, ammorbidendo la stretta e rinviandone i rigori. Abbiamo, infatti, un tasso di disoccupazione inferiore alla media europea. Ma allo scadere delle coperture, all’esaurirsi del tempo della cassa integrazione, anche i numeri racconteranno una realtà diversa. Il guaio è che nel mentre il racconto della crisi scema verso la fine, nel mentre si sposta l’accento sui segnali di ripresa, rischia d’arrivare la parte più salata e triste del conto sociale. E questo vale sia per chi subirà il danno più alto, perdendo il posto di lavoro o vedendone degradare la forma giuridica, come anche per chi vedrà eroso il potere d’acquisto dei soldi guadagnati. Anche qui, si verifica una singolare contraddizione: nel mentre si parlava di crisi non poche fasce di lavoratori hanno visto crescere il valore assoluto del salario, oltre che il potere d’acquisto, ora che va in scena la ripresa le aziende che hanno licenziato non riassumono e il potere d’acquisto accenna a scendere.

Non si tratta affatto di una situazione inspiegabile, anzi, le ragioni sono piuttosto evidenti. Ma sarà difficile trovare un soggetto politico capace di spiegarla, senza poi aggiungere proposte demagogiche e irrealizzabili. Grande parte della politica, insomma, ha esaurito la propria scorta di credibilità, proprio mente sarebbe necessario averne in avanzo. Da questo punto di vista certamente non giova che dal governo si proclami l’opportunità di abbassare la pressione fiscale, come è effettivamente necessario, e anche urgente, salvo poi correggere il tiro e ricordare di averlo già fatto (con il taglio dell’Ici) e non potere, almeno per il momento, andare oltre. Né giova annunciare, in sede europea, che si deve mettere mano alle pensioni, alzando l’età pensionabile, salvo poi specificare che ci si riferiva agli altri Paesi (posto, oltre tutto, che i più significativi hanno già un’età superiore alla nostra).

L’economia né si diverte né si rattrista, nel vedere che la politica s’impantana in discussioni autereferenti o resta impasticciata in inchieste penali di cui sfugge l’aspetto penale, in compenso giganteggia il non lusinghiero ritratto morale, semplicemente se ne frega. Siamo noi, però, a non potere essere altrettanto noncuranti circa la piega che prendono i mercati, né altrettanto disinteressati circa le ripercussioni sociali che quelli determinano. Se la politica si mostra incapace, su questo fronte, sarà l’antipolitica a preparare e favorire il peggio.

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