La situazione non cambia finché si continua con il de-Pil, con il rinvio e la non crescita. E il passaggio dal de-pilati al decorticati è breve e doloroso.
Della revisione effettuata dall’Istat, sui conti italiani, è stato colto il dato incoraggiante: 130 miliardi di prodotto interno lordo in più, negli ultimi tre anni. Tanto è rosea la luce che avvolge quella rivalutazione che il ministro dell’Economia s’è dovuto precipitare a ricordare che non modifica il quadro d’insieme e non deve indurre le cicale a cantare le arie a buffo delle nuove spese. Ha fatto bene, ma farebbe anche meglio a mettere in evidenza l’altro dato, frutto della medesima revisione: la crescita rallenta e rende i conti della stabilità più difficili. Nel 2021 si pensava d’essere cresciuti dell’8,3%, mentre si è andati avanti dell’8,9% (appena lo 0,1% in meno della botta presa nel 2020: -9%). Nel 2022 sapevamo d’essere cresciuti del 4%, invece è stato il 4,7%. Il problema è che nel 2023 credevamo di essere andati avanti dello 0,9%, mentre invece è stato soltanto dello 0,7%. È preoccupante e fa da premessa a un 2024 in cui la crescita difficilmente sarà quella messa ottimisticamente in conto dal governo, ovvero l’1,1%.
Va osservato che, mentre nel 2021 è stato consistente l’effetto di rimbalzo (dopo il tonfo precedente), nel 2022 non soltanto la nostra crescita è stata fra le più vivaci, ma si è contemporaneamente ridotto il rapporto fra il debito pubblico e il Pil. S’era imboccata la sola strada credibile per riuscire ad affrontare un debito troppo alto: far crescere la ricchezza più velocemente di quanto cresca il suo costo, in modo da riassorbirlo nel tempo. Il che ci riporta alle prime affermazioni del governo attuale: prendiamo la guida dell’Italia – dissero – nel momento peggiore della sua storia. A parte la smisurata esagerazione, facemmo subito osservare che la realtà era ben diversa: prendevano la guida in un momento in cui la crescita era forte e il debito in calo percentuale, per di più con una dotazione finanziaria per gli investimenti (data dai fondi europei Ngeu destinati al Pnrr) senza precedenti. I dati aggiornati confermano quella valutazione.
Come abbiamo fatto, allora, a rallentare più del previsto e – speriamo di sbagliarci – a rallentare ancora? Ci siamo riusciti perché non s’è fatto che rinviare. Anziché puntare ad ampliare gli spazi della competitività, con più concorrenza e più produttività, con più istruzione e meno procedure inutili, con giustizia più veloce e non più pene e più reati, s’è preso e perso tempo. Balneari e tassisti sono piccola cosa, ma anche ottimo esempio. E ancora si coltiva la speranza di potere rinviare. Si rilasciano interviste sull’energia nucleare, ma neanche si fa un passo avanti per trovare dove stoccare le scorie che producono gli ospedali. Si va dicendo che devono rinviarsi i tempi per l’archiviazione dei motori endotermici, ma in quello stesso settore perdiamo quote di mercato europeo nel mondo e italiano in Ue. Vogliamo prorogare pure quello in cui perdiamo colpi e si cercano sponde in una Confindustria che coltiva più la nostalgia che la volontà di prendersi il futuro.
Il rallentamento si riflette inevitabilmente nei conti pubblici, al punto che il ministro dell’Economia annuncia come fosse un successo il pareggio primario, ovvero che le entrate pareggiano le uscite prima del pagamento degli interessi sul debito. Peccato siano al 4,2% del Pil e ammontino a 90 miliardi. Crescenti. A noi serve diminuire questa spesa, quindi avere avanzi primari consistenti. Per i quali servono maggiore crescita e minore spesa improduttiva. Ma anche la revisione della spesa è stata rinviata, tornando alla pretesa dei tagli lineari ovvero a una modalità cieca, ma anche la sola praticabile se non ci si prepara per tempo.
E così siamo regrediti a un anno fa e alla discussione inutile sulla ulteriore tassazione per le banche. Inutile perché non si fece e perché comunque non strutturale, quindi soltanto una pezza temporanea. Che manco copre il buco.
Non se ne esce finché si continua con il de-Pil, con il rinvio e la non crescita. Che poi il passaggio dal de-pilati al decorticati è breve, nonché doloroso.
Davide Giacalone, La Ragione 25 settembre 2024