L’opposizione ritiene che siano solo “aiutini”, la Cgil dice che è merito suo, pur non ritenendoli sufficienti, l’estensione degli aiuti ai co.co.pro, i collaboratori a progetto con un solo committente, pone, in realtà, problemi di sostanza, non certo liquidabili con un approccio puramente propagandistico, costruito con dei non concetti del tipo: è poco. Certo, raddoppiare la percentuale sembra tanto, ma passare dal 10 al 20% dell’ultimo stipendio non è poi molto. Il fatto è che mentre la cassa integrazione guadagni, che tutela solo i garantiti, i lavoratori delle grandi aziende, con un contratto a tempo indeterminato, attinge ad un fondo finanziato dai lavoratori stessi, che è in attivo, quella in deroga, che si chiami indennità di disoccupazione o di “reinserimento”, deve essere finanziata dalla spesa pubblica.
La decisione, presa dal consiglio dei ministri, costa, per il 2009, 100 milioni, recuperati con tagli ai fondi del ministero, destinati alla ricerca. Continuando così si preparano o più tagli (contro i quali tutti protestano), o più tasse, o, infine, più debito.
Tale debito, così chiariamo subito quello che non si può fare, ha superato, secondo i conti resi noti dalla Banca d’Italia, i 1.700 miliardi di euro. Ha raggiunto il 105,8% del prodotto interno lordo, quindi della ricchezza che siamo in grado di produrre ogni anno, salirà al 110,5 quest’anno ed al 112 nel 2010, per effetto della contrazione del reddito (diminuzione del denominatore) e dell’incomprimibilità del debito, che continua a crescere e costarci (numeratore). E’ vero che molti Paesi europei guardano con malanimo al patto di stabilità, ed in questi tempi di crisi non esitano a spendere in deficit, ma noi siamo un caso patologico, perché lo abbiamo già fatto in passato, abbiamo esagerato ed abbiamo dato prova di non sapere rimediare.
Torniamo a quelli che una cultura sbagliata e nociva insiste a chiamare “precari”. In un momento come questo, con i dati sull’occupazione che continuano a segnalare perdite consistenti, mettere mano agli aiuti è necessario. Quel che stupisce è la costanza, la frequenza e la convinzione con cui il governo ripete la non volontà di procedere ad una riforma degli ammortizzatori sociali, laddove averli estesi anche a chi non ne aveva diritto, l’avere derogato dalla regola, è già una riforma, ma tutta solo nel senso della spesa. Insomma, rischiamo di pagare il costo degli aiuti, il che è inevitabile, ma senza neanche portare a casa una strutturazione più efficiente e dinamica del mercato del lavoro, il che è deprecabile. E’ singolare che ieri sia stata una sindacalista, Renata Polverini, a parlare di riforma, mentre l’argomento rimane tabù per chi è responsabile dei conti pubblici ed ha il dovere di occuparsi anche dei giovani e dei non garantiti.
Anche il tema delle pensioni è sparito dall’orizzonte politico, e lo cito a proposito, perché tutto si tiene. Quando il governo Prodi, incoscientemente, decise di cancellare gli scaloni previsti dalla riforma Maroni, quindi l’innalzamento graduale dell’età pensionabile, finanziò la prodezza con i soldi che i lavoratori a tempo determinato versavano alla previdenza. Ora che li si soccorre con più costosi sussidi non si può più contare sui loro soldi, perché già spesi in pensioni, quindi si deve attingere altrove. Risultato: prima si è tolto ai non garantiti per dare ai garantiti, ora si prendono i soldi dei contribuenti per aiutare chi allora si è penalizzato. Lo capisce anche un economista che, alla fine del giro, si rimettono le mani nelle tasche dei cittadini.
Del resto, è quello che Franceschini ed Epifani reclamano, come se fossero gli scopritori della progressività fiscale, contenuta nella Costituzione. La solidarietà fra contribuenti, e l’obbligo per i più ricchi di versare proporzionalmente di più, sono cose giuste, ma quando le tasse raggiungono la metà di quel che si guadagna, si chiama furto. L’idea di aumentarle ancora, la caccia al ricco contribuente, è sostenuta da quella sinistra che ha appena cambiato segretario, con l’ex che in pensione è andato da anni e prende 5216 euro netti, al mese. No, non mi va di pagare.