L’impostazione della legge di bilancio non può essere liquidata con il pur presente “Vorrei ma non posso”, né ci si può limitare a osservare quanto sia grottesca la proliferazione di flat tax, che a rigore di logica e regole fiscali dovrebbe essere un’aliquota unica, sicché il suo riprodursi al plurale diventa un cimento avverso al vocabolario. Quell’ipotesi di bilancio segna un punto positivo proprio nel confermare la capacità del governo di non essere rimasto alle sciocchezze propagandistiche del vicinissimo passato e all’antieuropeismo suicida cui pure aveva invitato. Il rispetto degli equilibri di bilancio, la fermezza nel difenderli, la capacità di uscire anticipatamente dalla procedura d’infrazione per eccesso di deficit sono elementi positivi che hanno già dato frutti importanti: dal calo dello spread all’alzarsi dei giudizi delle agenzie di rating. Fra i parlamentari della maggioranza c’è però chi vuole rompere l’incantesimo. Come capita a proposito dell’oro della Banca d’Italia.
Forse è l’idea delle 2.452 tonnellate e dei 95.493 lingotti, forse è il sapere che ne siamo i quarti detentori al mondo (dopo la Federal Reserve americana, la Bundesbank tedesca e il Fondo Monetario Internazionale), sta di fatto che se ne parla come di un tesoro il cui forziere vada aperto a beneficio degli italiani, tant’è che se ne propone (con emendamenti alla legge di bilancio) il trasferimento dalla Banca d’Italia alle casse dello Stato. Sarebbe inutilissimo masochismo. Ma non basta, perché sarebbe la dimostrazione che non s’è imparata la lezione del realismo e si ricasca nei miti complottardi del passato militonto. Non c’è alcun Eldorado da espugnare. Anzi, dopo la campagna dell’“oro alla Patria” di fascistissima memoria, quella dell’“oro allo Stato” sarebbe una nuova edizione dell’impoverimento privato e collettivo.
L’oro della Banca d’Italia è già degli italiani. Le banche centrali, nel mondo civilizzato e nell’area dell’euro, possono avere varie tipologie di azionisti, ma nessuno di loro ne è il proprietario e la banca ha assicurata la propria autonomia, che la tiene lontana da ogni interesse privato e da ogni ingerenza governativa. Non di meno il suo patrimonio è iscrivibile in quello collettivo. Se prendo quei lingotti e li sposto da un’altra parte succedono immediatamente due cose nefande: 1. si sposta un patrimonio da quel che è indipendente a quel che non lo è, in questo modo mettendo in allarme l’intero sistema delle banche centrali, che lo considereranno per quel che è, ovvero un attacco all’indipendenza; 2. ci si chiederà il perché di una simile sciocchezza e la sola risposta sarà l’intenzione di venderlo.
Questi due elementi produrranno un’immediata ondata di sfiducia nel Paese, cancellando i meriti del governo e facendo schizzare il costo del debito pubblico, che con la pretesa di farlo diminuire vendendo oro ci si troverebbe a vederlo aumentare per pagarne gli interessi. Senza contare che il valore di quell’oro – da tempo crescente – improvvisamente scenderebbe considerevolmente, proprio perché l’offerta aumenterebbe. Insomma, sarebbe come dire ai mercati: non ve ne siete accorti, ma l’Italia è seriamente nei guai e dobbiamo correre a vendere oro per non andare in bancarotta. Così chiamandosi addosso la bancarotta.
L’oro si lascia lì dov’è. Serve ad assicurare stabilità ai conti pubblici ed è servito anche per essere offerto in garanzia quando fummo costretti (con la lira) a chiedere prestiti ad altre banche centrali. Facessimo diversamente ci saremmo conquistati la condanna di tutte le altre banche centrali e di chiunque abbia riserve in oro. Tutta roba che non porta bene e che, in un attimo, cancellerebbe gli sforzi fatti da Meloni e Giorgetti per far capire che non avrebbero fatto quel che avevano detto di volere fare.
Diverse furono le leggende sull’Eldorado: dal re che si cospargeva di polvere d’oro alla città tutta dorata e agli immensi tesori nascosti in una qualche località dell’America Latina. Belle, ma anche false.
Davide Giacalone, La Ragione 28 novembre 2025
