Economia

Fiat lacrime

Fiat lacrime

Lo psicodramma attorno a Fiat e alle promesse di Sergio Marchionne è grottesco, ma anche rivelatore. Forse al governo sono convinti che i posti di lavoro possono salvarsi facendo la voce grossa con un’impresa, salvo accorgersi che ne vien fuori un gridolino in falsetto, privo di strumenti per farsi valere. Semmai ci si dovrebbe accorgere, finalmente, che le attività produttive si aprono e si mantengono dove rendono, e se, per farle rendere, si corrompe il mercato mediante aiuti di Stato o agevolazioni tariffarie si ottiene il solo risultato di buttare i soldi e ingigantire il problema, fin quando quegli aiuti vengono interrotti e l’impresa saluta tutti e se ne va. Non vale mica solo per Fiat, vale per tutti. E chi facesse fatica a capire guardi a quel che succede con Alcoa (dove se gli aiuti fossero stati dati direttamente agli operai, con quel che sono costati, ciascuno di loro oggi vivrebbe di rendita, alloggiando in una villa).

E’ vero: Fiat ha lungamente e abbondantemente approfittato degli aiuti di Stato (diretti e indiretti, svelati e nascosti, inutile che stiano a cincischiare), sicché taluni possono guardare con dispetto all’imminente voltafaccia. Ma noi, che ragioniamo di cose concrete, guardando i dati reali, lo avevamo scritto già quando Marchionne ce la metteva tutta per perdere il referendum presso i lavoratori. Solo che quelli si sono rivelati più saggi sia dei governanti che dei sindacalisti. Purtroppo senza cambiare i dati del problema, che erano solo marginalmente influenzati dalla loro condotta. Avendo preso tanti soldi, dicevo, suona sgradevole che se ne vada, ma la colpa è di chi li stanziò senza prevedere il ritorno: nel paesi seriamente condotti non si esclude affatto di agevolare questo o quello, ma se poi se ne va gli fanno lasciare sul tavolo i quattrini presi. Da noi, invece, li trovate tutti all’estero: alcuni sotto forma d’investimenti, altri inguattati nei conti personali.

Talora le lezioni della vita sono dure e costose. Questa lo è. Il peggio, però, è non capirle e non imparare: la competitività è una caratteristica complessiva di un mercato, composta di diritto del lavoro, regolarità dei pagamenti, accesso al credito, accesso alla giustizia, fiscalità non dissennata e burocrazia non sanguinaria. Fra altre cose ancora. Se prendi dei campioni e li mantieni in vita artificialmente, lasciando gli altri alla disperazione o costringendoli a evadere e truccare, se non a espatriare, quel che ti ritrovi in mano è quel che si vede. A quel punto inutile frignare.

Passando dai lucciconi ai fatti: che fine ha fatto il piano Giavazzi per la cancellazione degli aiuti inutili (ma costosi) alle imprese? Sappiamo, dall’autore, che è stato consegnato. Da tempo. Ma non sappiamo altro. E allora? Il governo che non deve chiedere voti (o hanno cambiato idea? o confluiscono alla spicciolata nelle liste altrui?) dovrebbe avere meno vincoli nel tagliare. Si dirà: in piena recessione è rischioso. No, è rischioso pensare di uscirne in quel modo, invece si deve tagliare e restituire, nel senso che ogni fetta di spesa pubblica che si riduce (e se ne deve ridurre tanta) deve essere restituita sotto forma di minore pressione fiscale. Nel caso delle imprese, ad esempio, riducendo il cuneo, grazie al quale abbiamo i salari mediamente più bassi che nel resto d’Europa, ma un costo del lavoro, per unità di prodotto, più alto. In questo modo se ne giovano tutti e non solo gli amici degli amici, che, solitamente, sono anche i meno capaci di navigare nel mare aperto dei mercati.

L’equivoco Fiat può essere strascicato nel tempo, magari chiedendo a Marchionne di rinnovare parole mendaci, in pratica supplicandolo di prenderci ancora in giro, ma non può essere risolto. Alla fine l’impresa va dove le conviene. Il nostro problema non è tenerci (tutti) gli stabilimenti Fiat, ma rendere conveniente produrre in Italia.

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