Discutere la linea di politica economica non è come affrontare il tema della cittadinanza agli immigrati. Nel secondo caso, come ogni volta che si discute di problemi circoscritti, anche se importanti e caldi, può accettarsi l’idea che la maggioranza si divida ed il governo perda una battaglia parlamentare. Ove così non fosse, allora tanto varrebbe chiudere il Parlamento (scherzo, e lo sottolineo perché viviamo tempi d’estremismi qualunquistici). Ma quando si esamina la politica economica, quando si vota la legge di bilancio, o finanziaria, che ne è l’incarnazione, non è possibile che il governo sia messo in minoranza senza che sia prestamente sostituito.
Per questa ragione le leggi di bilancio non sono, in gran parte delle democrazie europee, emendabili. Non significa che il Parlamento ha l’obbligo di approvarla così com’è, perché può ben respingerla. Significa che non può cambiare i numeri e le scelte lasciando al loro posto quanti li hanno scritti e le hanno fatte. Mi pare logico. E’ stucchevolmente ripetitiva la commedia di fine anno, che si ripete puntualmente, quale che sia il colore del governo, il cui copione recita: da una parte si pone la fiducia, quindi s’impedisce la discussione degli emendamenti, e dall’altra ci si strappa le vesti per la libertà violata. Poi si vota e si approva, come è successo ieri, e tutto torna come prima, perché, in effetti, la contesa era artificiale.
Superando la ripetitività e la noia, però, sarebbe interessante sapere quali idee alternative si sarebbero volute inserire. Anzi, quelle idee si sarebbero dovute esporre, dettagliatamente e senza fretta, nell’illustrare il voto contrario alla finanziaria. Non è successo, come, del resto, non succede mai. Anno dopo anno. E di temi ce ne sono molti, rilevanti ed urgenti. Da quindici anni l’Italia si sviluppa meno degli altri Paesi europei, ma al momento della crisi il nostro prodotto interno ha fatto un tonfo superiore alla media. Il calo della ricchezza delle famiglie, documentato dai dati della Banca d’Italia, e quantificato nel 2% dal 2007 ad oggi, ne è solo un segnalatore.
E’ inutile continuare a dire che i primi indicatori di ripresa ci pongono in testa, nella graduatoria della ripartenza, se non si esaminano le cause, evidentemente strutturali, di un così protratto rallentamento. Senza affrontarle, anche lo sprint di oggi si ammoscerà. Il ritardo è messo in evidenza anche dai dati Eurostat, che raccontano di un prodotto pro capite largamente sotto la media dei grandi Paesi europei. I giornali fanno tutti i titoli sulla Spagna, sottolineando che i cugini iberici ancora ci superano (sono dati riferiti al 2008), ma questo è folklore, quel che conta è la nostra incapacità di far crescere la produttività e chiamare all’attività un numero più alto di persone. Anzi, sono elementi che ancora ci segnalano in arretramento.
La nostra disoccupazione è al di sotto della media europea, ma è solo una mascheratura del dato, giacché si dovrebbero contabilizzare sia quanti hanno abbandonato la ricerca di un lavoro che quanti si trovano in cassa integrazione a zero ore, dopo di che non siamo più sotto ad un bel niente. L’anno prossimo, che inizia a giorni, molti termini della cassa integrazione scadranno, e la ripresa, pur presente, non è affatto detto che si traduca in riassorbimento, tanto meno immediato, della disoccupazione. Anzi, l’esempio statunitense dice il contrario.
A questi temi se ne aggiungono altri, nessuno secondario: dalla pressione fiscale (legata al problema del debito), all’età pensionabile, al mondo dei liberi professionisti, su cui la crisi si abbatte senza l’ombra di ammortizzatori. Fin qui il governo ha messo i sacchi di sabbia dietro alle finestre, stanziando soldi per quegli ammortizzatori, ma di riforme strutturali, tese a superare arretratezze antiche, quindi utili a promuovere lo sviluppo e l’elasticità del mercato, non se ne vedono. Sono temi difficili, perché favorire l’ingresso dei giovani, ad esempio, non può essere fatto lasciando immutate tutte le tutele di chi è già dentro il mercato del lavoro, premiare il merito non può essere fatto, senza penalizzare l’incapacità. Ma sono, pur sempre, i terreni decisivi, sui quali si gioca il nostro futuro.
Ebbene: ci sono idee diverse, a tal proposito? quali sono? Segue il silenzio, o calembour da concerti per salotto e tartina. Ma se non è su queste cose che il Parlamento vuole dividersi e votare, come sarebbe più che giusto, allora, su che altro vuole emendare la finanziaria? La partita è assai più materiale e terra terra. C’è una versione più intestinalmente lobbistica, per cui, votando, si consentono cambiamenti destinati a favorire questo o quell’interesse secondario e particolare, consegnando ad ogni singolo parlamentare la possibilità d’essere corteggiato ed ossequiato da chi quegli interessi rappresenta. E c’è una versione più generale e politicista, che rivolge la propria attenzione agli eccessivi poteri che si concentrano nelle mani del ministro dell’economia, che per via del bilancio diviene l’arbitro unico di quelle stesse pressioni.
Sicché, depurata dei suoi aspetti retorici e dimagrita delle sue cicce irose, la questione ha ben poco a che vedere con la dignità del Parlamento e la libertà dei parlamentari. Non parla la lingua delle grandi scelte, attorno alle quali non solo gradiremmo aperta discussione, ma anche determinazione allo scontro. Pertanto, senza che ci se ne voglia, scuserete il totale disinteresse.