Economia

Flessi-bile

Flessi-bile

Questa storia della “flessibilità” sta diventando stucchevole, perché il termine ricorre sempre più spesso, perdendo progressivamente di significato. A far credere che per la flessibilità siano le colombe e per il rigore i falchi si ottiene il singolare, e per il vero ridicolo, risultato di annoverare fra le prime il cancelliere tedesco. Più che far atterrare i falchi sarebbe opportuno far tacere i polli.

La sostanza politica della faccenda è piuttosto banale: il governo tedesco sa bene che il rigore dei trattati deve essere praticato nel modo meno brutale possibile, ma ha bisogno di dire al proprio Parlamento e alla propria opinione pubblica di non avere mollato nulla; i governi francese e italiano sanno bene che non c’è modo di sfuggire a quel che i trattati dicono e significano, ma hanno bisogno di dire al Parlamento e all’opinione pubblica di avere strappato politiche per l’occupazione e lo sviluppo (non conosco nessuno che sia per la disoccupazione e l’impoverimento). La differenza è nel tono del comunicato stampa. Che di suo non è commestibile.

Angela Merkel ha detto: i trattati europei vanno applicati in tutti i loro termini, sia relativi ai limiti che alla flessibilità, come si è fin qui fatto. Il richiamo a quel che si è “fin qui fatto” serve a calmare il Parlamento tedesco, ma anche a chiarire che non ci sono margini per cambiamenti sostanziali. Vediamo, allora, quel che può succedere e quel che si può proporre.

1. Sia il patto di stabilità che il fiscal compact prevedono limiti precisi all’indebitamento (noi siamo ampiamente fuori, ma anche tanti altri) che al deficit (noi siamo dentro, i francesi largamente fuori). Ciò non significa che scattano automaticamente le punizioni corporali. Ci sono possibili deroghe sia in ragione della congiuntura economica che delle programmate politiche di rientro.

Sono convinto che dalla congiuntura possiamo ottenere poco. Al più si può usarla come scusa. Ciò perché è vero che il rientro dal debito può essere posticipato ove un Paese non cresca quanto dovrebbe, ma è anche vero che noi siamo in quella condizione da tre lustri e che abbiamo firmato e ratificato il fiscal compact in piena recessione. Messa così, potremmo non rientrare mai. Non solo ce lo scordiamo, ma neanche ci conviene. Ricordiamoci sempre la più alta montagna europea di avanzo primario, rasa al suolo dal costo del debito. Qualcosa si può ottenere, invece, sul lato delle politiche destinate a propiziare l’aumento di produttività. Funziona così: metto in atto riforme che faranno crescere la propensione all’investimento e scendere il costo per unità di prodotto, ma quelle, nell’immediato, creano conseguenze sociali che comportano costi pubblici. In quel caso si può ottenere la mitica flessibilità. Ma le riforme si devono vedere, non raccontare. Significa far scendere la pressione fiscale e aprire il mercato del lavoro, abbassandone le garanzie, non creare posti di lavoro pompando spesa improduttiva. Fin qui s’è visto il contrario sul lato fiscale e solo i tre anni senza assunzione obbligatoria sul lato lavoro.

2. Il patto sottoscritto comporta l’azzeramento in venti anni, per un ventesimo l’anno, del debito pubblico eccedente il 60% del prodotto interno lordo. Posto che l’aumento del pil aiuterebbe moltissimo, ma che qui procede al rallentatore proprio perché mancano le citate riforme, quel meccanismo ha un procedere perverso: se prendo una torta e stabilisco di mangiarne metà al giorno il primo mangerò metà torta, il secondo un quarto, poi un ottavo, un sedicesimo e così via, in poco tempo mangiare metà torta significherà dividere una briciola. Il ventesimo anno del fiscal compact il debito da cui rientrare sarà irrisorio, ma il primo e il secondo sarà mostruoso. Siccome i primi anni sono proprio quelli in cui cresco così poco da far fatica a vedersi la differenza con la recessione, una delle cose da farsi sarebbe confermare l’obiettivo ventennale, ma usare l’elasticità prima descritta per distribuirlo in modo non suicida.

Messa così l’operazione diventa non solo fattibile, ma salutare (sempre che si lavori su riforme e taglio della spesa pubblica corrente, non sulla sola leva fiscale, come fin qui fatto). Messa com’è somiglia a una favola terrorizzante.

3. Ciò non toglie che ci sarebbe un modo per abbattere il debito con una botta secca, vendendo patrimonio. Ne parliamo da anni, senza che nulla succeda (solo dilapidazioni marginali, che aggravano le cose). Sarebbe saggio fare una proposta di portata europea: a. si crei un fondo Ue, ove sia possibile conferire patrimonio vendibile, ricevendo liquidità immediata per l’80% del valore stimato; b. tre quarti di quei soldi vanno ad abbattere il debito, propiziando la discesa delle tasse, un quarto agli investimenti; c. il fondo viene finanziato con bond europei, più che garantiti perché non legati ai debiti nazionali, ma a patrimonio reale; d. i beni vengono venduti, nel tempo, da soggetti specializzati e ripagati dall’intermediazione, conguagliando successivamente al differenza.

Con una roba di questo tipo vedremmo piovere sia fondi che candidati alla gestione, da ogni parte del mondo. Né varrebbe l’obiezione che quel patrimonio è già a garanzia del debito, perché lo sposteremmo (noi come altri) apposta per rimborsarlo e ridurlo. Più che le chiacchiere elasticizzate e le baruffe ornitologiche, ci serve stare con i piedi per terra e avere proposte solide. In quel caso sarebbe ragionevole guardare al futuro con la giusta serenità, mettendo a frutto il tempo che la Banca centrale europea ha comprato per noi tutti.

Pubblicato da Libero

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