Monte dei Paschi di Siena ha vinto la partita e conquistato Mediobanca. Ci sono ancora diversi passaggi da fare, la quota di azioni acquisite potrebbe salire (entro la fine di questo mese) rispetto al 62,3% già in portafoglio, mentre il cambio nella cabina di guida è previsto per la fine di ottobre. Ma sono tappe senza problemi, un copione che sarà recitato senza colpi di scena e un risultato ragguardevole per chi era, appena ieri, in bancarotta e bisognoso dei soldi del contribuente per essere salvato. Tanto che lo Stato rimane il principale azionista di Mps.
I trionfatori, per il vero, non sono tanto quelli di Mps quanto due loro azionisti: Caltagirone e Milleri (Gruppo Del Vecchio). Questa è la sostanza, ma non la forma. Tanto che in questo primo atto della commedia l’unica sorpresa potrebbe essere l’intervento della Procura, ove ravvisi un concerto scorretto da parte di questi due azionisti. In quel caso la battaglia si trasferirebbe in tribunale e lo svolgimento successivo sarebbe sulle ginocchia di Giove. A parte questo, a fine ottobre calerà il sipario sul primo atto. Non è pubblico, però, il copione del secondo.
Se l’acquisizione di Mediobanca avrà una logica industriale – che la vecchia dirigenza ha fermamente negato – i due gruppi lavoreranno a integrarsi e proveranno a portare risultati nei prossimi anni. Un lavoro di lunga lena, che richiede capacità da banchieri e duttilità da zoologi nel mescolare due animali diversi. Se invece lo scopo dell’operazione fosse –almeno prevalentemente – quello di usare Mediobanca quale principale azionista delle assicurazioni Generali, in modo da conquistare quel forziere, allora il secondo atto avrà come scenografia Trieste e non Milano. Anzi, è facile che Milano (Mediobanca) finisca con l’essere un veicolo che perde valore, una volta giunti a destinazione. In quel caso potrebbe darsi che la si ritrovi nuovamente sul mercato, alla ricerca di qualcuno che l’acquisisca.
In tal senso è interessante guardare a cosa succede a Bpm. Su questa banca fu Unicredit ad avanzare una proposta di acquisizione, oramai decaduta dopo che il governo si mise di traverso a difesa dell’italianità e della costruzione di un terzo polo con Mps. Unicredit ha ritirato l’offerta, per impraticabilità del campo, e ha poi favorito gli scalatori di Mediobanca. Le banche fanno politica, sebbene in modo meno ciarliero. Epperò i primi azionisti dell’italiano Bpm sono i francesi di Crédit Agricole, con il 20% delle azioni, che hanno già chiesto alla Banca centrale europea l’autorizzazione a far crescere tale quota e si vocifera di un 35% in ballo. Ma senza troppi clamori od offerte pubbliche (buone in una logica di mercato, ma sdrucciolevoli se da quella si esce, come l’esperienza Unicredit insegna), bensì lavorando sui pacchetti di altre istituzioni finanziarie. Magari si proverà a dire che non sono i francesi che comprano quote ma gli italiani che comprano la parte italiana dei francesi, ma la zuppa è che la difesa dell’italianità si potrebbe dover spiegare in lingua gallica. E chissà che nel terzo atto questa non sia la sorte anche di Mediobanca.
Tutto questo non preoccupa per le bandierine nazionali sui pacchetti azionari, giacché in uno spazio bancario comune europeo (da completarsi) è normale ed è bene che nascano campioni continentali, con fusioni e compartecipazioni. Preoccupa che alcune di queste operazioni non si svolgono sul mercato ma impedendo al mercato di funzionare e, quindi, di far funzionare i suoi strumenti di trasparenza e garanzia. Come preoccupa che l’operazione principale sia condotta da una banca appena salvata e dove ancora sono in ballo soldi dei contribuenti.
Osservare che il tema non riesce a imporsi come problema che richiami l’attenzione delle forze politiche e l’occhiuto interesse di opposizioni orbe, non fa che accrescere una certa inquietudine. In quei forzieri ci sono i denari dei risparmiatori e gli interessi dei produttori, sicché non è trascurabile l’ipotesi che siano forzati.
Davide Giacalone, La Ragione 11 settembre 2025