Economia

Fra virtù e vizio

Fra virtù e vizio

C’è un modo virtuoso per affrontare la difficoltà, grande, nella quale ci troviamo. Un modo per non essere commissariati e tornare ad avere un ruolo economico e politico, in Europa. Solo che il tempo sta volando via e ne abbiamo sprecato parecchio. Consiste nel chiudere ogni discussione e passare per le seguenti tappe: a. far cassa subito, con l’Iva, aumentandola senza scadenza, in modo che non deprima i consumi, il che si ottiene non limitandosi ad un punto sull’aliquota più alta, ma facendo conoscere contemporaneamente le date da cui decorrono gli altri aumenti; b. dimostrare di sapere mettere in equilibrio i conti per il futuro, aumentando l’età per la pensione (limitarsi alle sole donne non basta, meglio far conoscere il punto d’arrivo definitivo e generale) e rivoltando la spesa sanitaria (alcune regioni hanno operato malissimo, creando un debito ancora occulto, che il cielo non voglia debba emergere); c. annunciare le tappe delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni, in modo che si concludano nel biennio rimanente della legislatura.

La tassa del tre per cento sui redditi superiori a 300 mila euro annui (34.024 persone, che già pagano la metà di quel che guadagnano) sa di demagogia. Meglio dire che passata la tempesta gli aumenti Iva saranno stabilizzati a favore di una diminuzione della pressione fiscale sui redditi. Non serve a nulla dire cose rivolte solo al board Bce di domani. Tanto quelli sanno benissimo che il problema non siamo noi, ma l’euro.

Il governo in carica ha dalla sua l’avere praticato una rigorosa politica di bilancio, talché siamo fra i migliori, in Europa, con un deficit fra i più bassi. Ma ha la colpa, grave, di non avere saputo andare oltre la lesina, disegnando un futuro diverso e una strategia di crescita. Le tre tappe sopra riassunte non risolvono i problemi, gli attacchi speculativi continueranno e lo spread, il differenziale di fiducia, continuerà ad essere un indicatore critico. Ma se si bruciassero le prime due si avrebbero le carte in regola per portare la questione nella sua sede naturale: l’Unione monetaria. L’architettura di Maastricht deve essere rivista, altrimenti o ci si strangola uno ad uno o ci s’impicca tutti assieme.

Purtroppo c’è anche un modo vizioso di affrontare la cosa, che fin qui sembra prevalere: non fare mai niente se non costretti con il coltello alla gola, con il risultato che tutto quel che si fa è destinato a bruciarsi in fretta. Il vizio del rinvio e della politica pusillanime porta al commissariamento. E siamo ad un passo. Non vale più neanche la pena avvertire che nella nostra Costituzione non è previsto un ruolo governante del Quirinale, perché le questioni di forma e sostanza istituzionale cedono il passo innanzi al fatto che dal Colle ci si fa interpreti del commissariamento imminente. Magari restando a cavallo fra il paventarlo e l’accoglierlo. Il deragliamento costituzionale è una responsabilità in capo alla Presidenza della Repubblica, ma il vuoto che lo rende possibile abita a Palazzo Chigi.

Il commissariamento non necessariamente prende la forma di un governo presidenziale. Anche perché Napolitano non è Scalfaro e l’idea che Tremonti reciti la parte di Dini è fuori da ogni possibile copione. Anzi, la durezza delle botte ricevute, dai mercati e dalle procure, induce i duellanti ministeriali di un tempo a guardarsi le spalle a vicenda. Il governo tecnico, o presidenziale, ha davanti a sé due ulteriori difficoltà: cambiato il sistema elettorale la sua legittimità sarebbe ardita e quelli che dovrebbero sostenerlo sono gli stessi che considerano già truce e iniqua la manovra alla camomilla inutilmente e lungamente discussa dal governo, durante il lungo e dilapidato mese d’agosto.

Mettiamola così: se proprio gli interessati non si mettono di traverso il più accreditato candidato a far la parte del commissariato è il governo in carica. E’ già capitato che certi discorsi siano stati scritti fuori dai palazzi della politica, e mi pare che la maestra sia sempre più severa nel dettare e nel non volere ripetere. Se, invece, al presidente del Consiglio o al ministro dell’economia risorgesse l’uzzolo della propaganda a scadenza settimanale, o se, più facilmente, nella Lega prevalesse la voglia di girar pagina, allora il cambio di mano sarebbe immediato, perché i tempi dei mercati se ne fregano delle liturgie e l’incubo di un nuovo e duplice declassamento del debito avrebbe un costo troppo alto. Mancando di maggioranze alternative, il governo dell’amministrazione controllata durerebbe il tempo della campagna elettorale. Uno scenario che, in fin dei conti, non conviene a nessuno. A patto, però, che ci sia ancora qualcuno dotato di sufficiente lucidità da riuscire a valutare le convenienze e le possibilità.

Ma l’approccio virtuoso esiste. Salverebbe sia la moneta unica (il cui collasso ci costerebbe carissimo) che la sovranità politica, indirizzandosi verso un più federale quadro europeo e un più forte mercato interno. Che tale condotta sia destinata all’impopolarità può crederlo solo chi s’è già condannato al massimo del rifiuto collettivo, conquistato nel mentre si provava a lisciare il pelo all’opinione pubblica. A destra come a sinistra.

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