Economia

Generali d’agosto

Generali d'agosto

I soldi non dormono e non vanno in vacanza. Francesco Gaetano Caltagirone lo sa e ha deciso di far loro compagnia, anche ad agosto. Mentre gli italiani si mettono in fila sulla spiaggia o fra le vette, dimostrando a se stessi che la solitudine è uno stato d’animo interiore, non certo una meta estiva, lui s’è messo in fila per salire nell’azionariato delle Assicurazioni Generali. Di quella compagnia è già membro del consiglio d’amministrazione e dell’esecutivo, ora, dopo i rastrellamenti agostani, ne possiede poco meno dell’1,9%. Sostiene che sia un buon investimento, e tanto basta a giustificare la spesa. Ma c’è dell’altro.
Assieme a Mediobanca, Generali è uno dei cardini attorno ai quali girava l’intero assetto del capitalismo italiano. Almeno per tutta la lunga stagione che s’accompagnò alla ricostruzione ed alla guerra fredda, che rendeva impossibile quel che oggi chiamiamo “globalizzazione”. Enrico Cuccia fu il gran sacerdote di quel periodo, il suo rapporto con i francesi stabilizzò la proprietà di Generali. Il mondo, oggi, è cambiato, quei due poteri non hanno più il ruolo di un tempo, ma questo non significa che abbiano perso di valore e rilevanza. Per giunta le loro sorti s’intrecciano, perché a breve si dovrà ridiscutere sia il patto di sindacato che regge Mediobanca che l’assetto dirigenziale di Generali. Può darsi che al grande pubblico sfugga, ma son cose che hanno a che vedere con il potere assai più delle smargiassate politiche sull’inno o sul partito del Sud, per non dire delle avventure non esattamente galanti.
Il problema dell’italianità della società non è legata alla distribuzione azionaria, ma a quella dei poteri. Gli azionisti italiani hanno quasi il 70%. I maggiori, fra i quali spicca Mediobanca, concentrano poco più del 31. Sono livelli apparentemente del tutto sicuri. Ma Cuccia aveva disegnato un sistema capace di dare vita ad un capitalismo senza capitali, tutto fondato sui patti di sindacato e garantito dall’influenza di Mediobanca. Quella era la diga che impediva alla politica di comandare sul “padronato”, e, al tempo stesso, ai padroncini, spesso minuscoli e profittatori, di arricchirsi troppo a danno delle aziende. Traghettare quel sistema nell’era della finanza globale è faccenda assai delicata, perché le porte che ieri sbarravano il cammino ai barbari possono essere, oggi, l’accesso per i cavalli di Toria. Inoltre, anche al nostro interno la mappa dei potenti attende d’essere ridisegnata. Il che spiega il lavorio di queste settimane, non destinato a cessare.
Quando nacquero, nel 1831, le Generali avevano come simbolo l’aquila asburgica, che divenne leone veneziano solo dopo l’annessione del Veneto all’Italia. Senza tirare in ballo Oberdan e “l’odiata gallina”, il percorso inverso, certo non asburgico, non sarebbe gradevole.

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