Economia

Giustizia e Finmeccanica

Giustizia e Finmeccanica

Quando la giustizia si occupa di Finmeccanica, il che accade spesso, l’Italia si trova ad avere a che fare con due problemi: la giustizia e Finmeccanica. Che hanno in comune una cosa: mentre è divenuto scontato sparacchiare contro i costi della politica, mentre si fa finta di avere paura di quel che si alimenta a piene mani, ovvero l’antipolitica, il Paese scivola nel baratro a causa delle non-politica. Delle scelte mancate, delle cose non fatte, di quelle che neanche si ha il fegato di dire.

Vediamo le tre cose separatamente, anche se agiscono all’unisono. Prima di tutto la giustizia. Quando il ministro Corrado Passera dice che non basta un avviso di garanzia, per mettere in discussione o destabilizzare un’azienda come Finmeccanica, ha perfettamente ragione. Vorrei osservare che tale principio, proprio perché è un principio, deve valere sempre, altrimenti smette di essere un principio e diviene la fine che fanno gli ipocriti. Per noi è inviolabile: fino alla condanna definitiva c’è solo l’innocenza. Punto. Pero, non essendo ipocriti neanche siamo scemi, e sappiamo che dirigere quel gruppo, esposto in tutto il mondo, con sulla testa un’accusa di corruzione internazionale e riciclaggio è praticamente impossibile.

Quando si trattava di accaparrarsi un’importante commessa militare, in Brasile, i francesi ci fecero il regalo di far comparire in quel Paese un nostro connazionale condannato per omicidio, che essi avevano protetto da latitante. Avvertimmo subito della trappola, ma il resto dell’Italia abboccò, aprendo un contenzioso con le autorità brasiliane (laddove, semmai, dovevano prendersela con i concittadini europei). Questo per ricordare che il mondo degli affari militari non è popolato da damerini. Nessuna arma, però, è più efficace della giustizia italiana, quando si tratta non di dividere i torti dalle ragioni, ma di azzoppare le aziende e la politica. Quindi: Passera ha ragione, ma ciò vuol dire che non può esistere un mercato e una politica efficiente senza una giustizia che sappia giudicare, e subito, dopo avere infamato. Fin quando governo e Parlamento saranno a rimorchio del corporativismo togato il problema resterà insoluto.

Poi c’è Finmeccanica: un gruppo nel quale si trovano gioielli della tecnologia, ma anche costumi inaccettabili e bidoni in perdita. Evitare che sia distrutto è un interesse italiano, ammettere che solo per questo ci si possa comportare da ladri di polli che pretendono di portar via interi bovini, invece, non è accettabile. I colpi bassi sono quotidiani, nel mondo degli affari (come in ogni altra attività umana), l’uso dei mediatori è normalissimo, ma una cosa è usare persone competenti, preparate, anche spregiudicate, altra affidarsi a signorine e intriganti affetti da manie di grandezza. La presunzione d’innocenza vale in campo penale, ed è intoccabile e universale, ma mica riguarda il giudizio che può esprimersi, anche subito, sull’ipotesi che aziende di Stato vadano ad arricchire soggetti a dir poco improbabili.

Ma, si risponde, avevano entrature e conoscenze. Balle, le hanno in tanti. Solo che c’è chi entra dall’ingresso principale e chi s’intrufola nello spogliatoio. Prediligere la furbizia all’intelligenza, l’untuosità alla competenza non è un modo per far prima, è un sistema per distruggere tutto. Contano i risultati? Anche, ma quelli di Finmeccanica sono negativi, posta la potenzialità del gruppo. E questo porta al terzo tema, politico.

Perché Finmeccanica deve essere pubblica? Perché, si risponde, la vendita di armi non può che essere funzione della politica estera. Giusto, ma a parte il fatto che il gruppo si occupa anche di molte altre cose, la domanda è: a quali scelte di politica estera rispondono i commerci di Finmeccanica? Non conosco la risposta. Credo non ci sia. Al massimo c’è il limite della politica estera al concludere certi affari. Poi il vuoto. In queste condizioni preferisco che il gioiello sia in mani private, le quali si adopereranno anche, con pressioni lobbistiche, affinché il governo favorisca gli affari di una società italiana, piuttosto che lasciar campo libero a concorrenti stranieri. E lo preferisco perché quella sana difesa degli interessi è cento volte meglio di analfabeti politicizzati collocati nel consigli d’amministrazione o arruolamenti di mezze seghe nella veste d’intermediari internazionali.

In tutte le democrazie del mondo esiste un problema di rapporti fra affari e politica, che va affrontato con realismo e senza moralismo. Ma quando l’affare è la politica, quando la politica nomina chi fa gli affari, si accede al lenocinio. E ne siamo in overdose.

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