Economia

I conti con la Bce

I conti con la Bce

Dalle zampogne alle rampogne. Dai dati Ocse ai rilievi della Bce. In ventiquattro ore la musica passa da “allegro immotivato” a “mesto con brivido”. Questo, però, solo nella bocca dei propagandisti e nelle pagine degli approssimativi, perché qui avevamo osservato la realtà ed avevamo visto giusto.

Ieri ancora suonavano le trombe per la correzione delle previsioni Ocse. Che lette attentamente, senza lasciarsi distrarre dal chiasso strumentale, erano preoccupanti. Nell’autunno scorso l’Ocse prevedeva una crescita italiana, per il 2015, di appena lo 0,2%. Ora corregge quella previsione al rialzo, portandola allo 0,6. Una buona cosa? Certamente, ma solo se si commette l’imperdonabile errore di misurarsi con sé stessi, in una sorta di autoerotismo statistico. Gli stessi dati Ocse ci dicono che la crescita dell’eurozona è prevista all’1,4%. Quindi la nostra è meno della metà. Può festeggiare solo chi pensa di ingannare gli altri e nel frattempo si prende in giro da solo.

0,6 era la previsione fatta dalla Commissione europea a novembre, sempre per l’Italia, quando la stessa fonte immaginava una crescita dell’eurozona pari all’1%. Eravamo a poco più della metà. A gennaio hanno rivisto le previsioni: eurozona +1,3; Italia +0,6. Inchiodati e ricollocati a meno della metà. L’Ocse ha confermato questa prospettiva, che è allarmante, non rassicurante. Quando l’alta marea, indotta dall’aumento di liquidità praticato dalla Banca centrale europea, rifluirà, quando l’espansionismo monetario non potrà essere spinto oltre, alcuni avranno preso il largo e dispiegato le vele, mentre noi saremo ancora a ridosso degli scogli, con la ciurma che discute di riforme costituzionali.

Ieri è arrivato il bollettino della Bce, che conferma queste nostre riflessioni. Per niente fenomenali, semmai piuttosto banali e di buon senso. Merce che scarseggia, nel gran bazar della propaganda. Dicono alla Bce: la politica di bilancio, in Italia, non sta rispettando il necessario programma di rientro dal debito. E va di lusso, perché se non avessimo accettato le correzioni alla legge di stabilità e non fosse partita la politica espansiva europea (e se i greci non facessero i matti), a questo punto ci troveremmo con la trimestrale di cassa che certifica il disallineamento, provocando la reazione altrui e innescando il meccanismo delle ulteriori (dolorose) correzioni. Siamo solo agli scappellotti, e va bene. Risponde il nostro ministro dell’economia: lavoriamo sul debito operando con le riforme. Una risposta assai in politichese, ma, più che altro, una risposta affrettata, perché se avesse atteso avrebbe sentito anche il secondo rilievo della Bce: sulle riforme siete in ritardo e dovete farne altre, se volete usarle per la crescita.

Si rammenti che la Bce, anche perché unica protagonista attiva di rango europeo, ha una visione positiva dei dati, tanto è vero che colloca la crescita dell’eurozona, per l’anno in corso, all’1,5. Più dell’Ocse e della Commissione europea. A Francoforte non c’è alcuna propensione al pessimismo. Ma i numeri sono numeri e i fatti sono fatti. Proprio per questo risulta particolarmente nervosa e controproducente la reazione del governo, che in una nota serale è giunto quasi ad accusare la Bce di non sapere fare i conti. Non solo non è vero, ma se anche lo fosse non sarebbe il caso di battibeccare in quel modo con chi ha il merito di avere riaperto all’Ue, quindi anche all’Italia, la via della crescita. Senza contare che i ritardi messi in evidenza dalla Bce ci sono tutti, sono evidenti e negarli è infantile.

Neanche qui si ha alcuna propensione all’umore funesto. Se guardiamo la curva del prodotto interno lordo, da anni in caduta, e la accostiamo a quella delle esportazioni, da anni in crescita, vediamo ad occhio nudo la forza indomita del nostro sistema produttivo. Gli splendidi risultati che dobbiamo a imprese e lavoratori. Ma quello è solo un pezzo d’Italia. Sulle cui spalle, per giunta, carichiamo il peso di una spesa pubblica improduttiva e galoppante. Non è la realtà industriale italiana (pur molto provata) a provocare il pessimismo, è la superba cretineria di usare gli indicatori economici per misurare il proprio presente istantaneo con il proprio passato prossimo. Esercizio da scemi. O da imbroglioni.

Pubblicato da Libero

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