Non era un’assemblea dei soci, quella di Telecom Italia, ma un Circo. Come nell’arte circense, gli spaventi erano simulati, il caos divertente, il mago solo un esperto in trucchi ed il pagliaccio triste ha commosso prima di lasciare il campo ai colleghi che fingono di suonarsele.
Terminato lo spettacolo, svuotate le gradinate, tutto resta come prima. Nel romanesco s’usa un’espressione pertinente: “come stessimo rimanessimo”.
Vedo che adesso molti ripetono amenità varie sul come sia stata fatta male la privatizzazione e quanto le ultime gestioni abbiano nuociuto a Telecom. Non brillano per tempestività, ma neanche per coerente capacità di trarne delle conseguenze. Per esempio, pochi raccontano l’evidenza: l’assemblea è stata gestita da Carlo Buora, sodale di Tronchetti Provera e corresponsabile nella gestione, devianze comprese; il consiglio d’amministrazione è ancora nominato dallo stesso azionista, sempre più in minoranza ed in uscita; mentre il nuovo presidente era ed è un rappresentate dei suoi interessi. Entro quindici giorni tutti lor signori potranno trovarsi su una sedia che sarà stata venduta, posto che è in vendita da mesi, in un susseguirsi forsennato d’annunci fasulli. Non saranno gli americani di At&t a comprare (cosa avevo scritto lo scorso 4 aprile? è la seconda volta che li si usa per prendersi gioco del mercato italiano, dato che già nel 1997 Prodi e Ciampi li misero nel consiglio d’amministrazione della società, per far credere che ci fosse un’inesistente alleanza). Magari resterà nella partita un messicano che vuole approfittare dei disastri combinati in Brasile e del fatto che nessuna dirigenza societaria ha per quelli mai voluto avviare un’azione di responsabilità, consegnando alla magistratura penale l’esclusiva dell’etica aziendale. Non potrà più sostenere di voler comprare tutto, ma solo quel che gli interessa. Ma l’importante è vendere, quindi i vertici appena nominati presto smetteranno di rappresentare anche solo se stessi e si prepara il salvataggio bancario. L’azienda non è gravemente malata, dice Buora. Il fatto è che era sana, prima che le locuste l’assaltassero. E ricordo che della faccenda strana di Pirelli Real Estate scrissi nel 2004, e tornammo ad occuparcene ne Il Grande Intrigo.
Qui non è in discussione il valore personale di Pasquale Pistorio, e neanche l’ottimamente remunerata capacità finanziaria di Buora. Qui si constata che i meccanismi societari hanno tutti fallito, assemblea circense compresa. E’ chiaro a tutti che chiamare alla presidenza chi nel 2005 si ritirò per raggiunti limiti d’età non significa aprire un nuovo corso, il guaio è che neanche si chiude quello vecchio, protraendosi il diffondersi dei miasmi a quello connessi. Ma non solo si è verificato che i piccoli azionisti non contano nulla, che si vende e si compra si rialza e si ribassa facendo braciole dei loro interessi, che le istituzioni finanziarie compartecipano degli errori anziché denunciarne gli effetti sui bilanci, che le autorità di controllo sono al di sotto dei loro doveri, c’è di più, perché a questo s’aggiunge una politica che anche nei congressi domenicali parla di Telecom e inquina concetti altrimenti complicati, come “mercato” o “italianità”, recitando invece l’antica commedia del potere. Ed è questa, forse, la cosa più triste: lo scontro per il potere ha perso spessore e significato politico, è solo un avvicendarsi e prevalere di gruppi. Magari c’è chi s’appassiona, benché sia difficile rassegnarsi ad un Paese in cui l’economia e la politica si disputano l’eredità di Barnum.