Economia

Il filo e la collana

Il filo e la collana

La ripresa economica c’è, i dati sulla cassa integrazione (in significativo calo) sono confortanti, ma non c’è da essere soddisfatti: ci muoviamo più lentamente di altri e la ripartenza è dovuta, prevalentemente, al commercio estero. La corrente ci muove, ma sarebbe bene assecondarla vogando, non sonnecchiando. Oggi il Consiglio dei ministri discute il “decreto sviluppo”, vale a dire norme indirizzate alla crescita, immediatamente operative. I signori del governo devono rendersi conto, però, prima che sia troppo tardi e la legislatura imbocchi la stagione elettorale, che guidare un Paese non significa fare una serie di cose scollegate fra di loro. Se anche fossero perle (il che non sempre capita), senza un filo che le trasforma in collana sono solo palline che rotolano via, e sulle quali si può inciampare. La somma non fa il totale, smentendo anche Totò.

Prima si discusse della “frustata”, che avrebbe dovuto svegliare il ciuco e, invece, lo ha lasciato dov’era. Ora il decreto. Poi si dovranno affrontare il Piano Nazionale di Riforma e gli impegni richiestici dall’Unione Europea, finalizzati ad un lontano e inafferrabile 2020. Ebbene, se ci si mette a discutere di tante e differenti tessere, omettendo di raccontare cosa diavolo dovrebbe raffigurare il mosaico, si finirà con il montare la solita rincorsa fra risse e promesse, senza che alcuno abbia chiaro l’approdo. Esempio: provvedimenti specifici per favorire l’occupazione giovanile e femminile, quindi diminuire lo spreco che non possiamo e non dobbiamo permetterci, sono utilissimi, ma se non si chiarisce che questi sono solo alcuni pezzi di un più generale disegno, tendente alla valorizzazione delle risorse umane (istruzione competitiva e meritocrazia in dosi massicce), all’abbattimento delle rendite (liberalizzazioni di mercati e professioni), alla diminuzione della pressione fiscale (per cui le agevolazioni immediate sono utili se tendono a stabilizzarsi, altrimenti creano solo un’illusione passeggera), e così via, se non si chiarisce l’insieme si perde tempo. Nonché competitività rispetto ad altri sistemi-paese.

Il compito della politica non è rubare il mestiere al mercato, decidendo dove e come investire, o su quali settori puntare, ma disegnare un contesto coerente che avvantaggi, o, quanto meno, non svantaggi le nostre imprese e i nostri lavoratori rispetto ai concorrenti globali. Così non è, perché la gran parte dell’arretratezza (non tutta, non creiamo alibi) si concentra nella spesa pubblica, che, a sua volta, genera pressione fiscale.

Il fatto che gli elettori ritengano prioritari i problemi dell’economia, salvo pensare che la destra sia più adatta a favorire lo sviluppo e la sinistra più acconcia a favorire il lavoro, racconta l’impazzimento di un Paese che ha perso il nesso fra l’una e l’altra cosa. Ha perso la politica. Smarrita la via ci si disputano le briciole, come un Pollicino autolesionista, neanche bisognoso d’uccelli dispettosi.

Il risvolto politicista di tale mancanza sono le polemiche sulle persone, come se fosse immaginabile attribuirne la responsabilità ad uno anziché all’insieme. Come se al rigore di Giulio Tremonti possa contrapporsi la furia spendacciona di chi reclama soldi in nome di uno sviluppo che non sa definire. Fin quando non vedremo, dietro le polemiche, il delinearsi di diverse idee, complessive e coerenti, circa la strada che si dovrebbe imboccare per non rassegnarsi al declino, saremo sicuri d’assistere a una lite di cortile, quando non ad un agitarsi del pollaio.

Sia il decreto che il piano delle riforme possono essere l’occasione per dimostrare la voglia di guardare oltre il naso, accompagnando le misure specifiche con un’idea dell’Italia futura. Non ce ne saranno mote altre, d’occasioni simili.

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