Economia

Il piffero di Atlante

Il piffero di Atlante

Tutto sta a capire se si proteggono alcune banche per raddrizzarle, evitandone la caduta, o se ne proteggono le storture con puntellature che ne evitino (si spera) il collasso. Se il fondo Atlante serve alla prima, e buona, o alla seconda, e cattiva, cosa. Della sua natura ci siamo già occupati, così come della sua doppia missione: contribuire alle ricapitalizzazioni e acquisire crediti deteriorati. Ora che ne conosciamo meglio la struttura ne vediamo le buone opportunità, ma anche i possibili inciampi.

1. Ha un senso che siano banche e assicurazioni italiane (pur contenendo azionisti di altra bandiera) a mettere a disposizioni i capitali necessari per la ricapitalizzazione. Che contribuisca anche la Cassa depositi e prestiti è il primo sintomo di un possibile problema. Ma ha un senso se si tratta della precondizione per poi ristrutturare e accorpare. Le banche italiane non hanno contratto malattie che hanno affondato altri concorrenti stranieri, ma hanno costi troppo elevati e strutture elefantiache: troppi consigli d’amministrazione, troppe sedi, troppi sportelli, troppi dipendenti. E troppe commistioni fra azionisti, amministratori e beneficiari del credito. Se si ricapitalizza per curare, anche ruvidamente, se lo si fa sapendo che l’unione monetaria reclama banche continentali, bene. Altrimenti son soldi vaporizzati.

2. Anche nel ricapitalizzare, però, si manifestano conflitti d’interesse. Unicredit, ad esempio, è, al tempo stesso, l’azionista più importante (assieme a Intesa Sanpaolo) del fondo e il garante della sottoscrizione del capitale per la Popolare di Vicenza. In tale condizione s’è accordata con Quaestio Management (che opera per conto di Atlante), delegando a questo il dovere di sottoscrivere quel che il mercato non comprerà. Il conflitto c’è. Le prime mosse sono sotto la regia di Alessandro Penati, garanzia che il conflitto non creerà distorsioni. Ma quanto può durare una simile garanzia? Non vorremmo dover commentare, fra qualche tempo, le dimissioni del professore.

3. Quanti soldi resteranno, ad Atlante, dopo avere sottoscritto aumenti di capitale? Pochi, se c’è solo il capitale versato. Di più (mai tanti), se li chiederà al mercato. Ma per evitare che la fregatura uscita dalla porta rientri dalla finestra occorre che al mercato si propongano operazioni profittevoli, non salvataggi a perdere.

4. Le cose si complicano sul fronte dei crediti deteriorati. Qui la mancanza di azionisti stranieri, in particolare di specialisti del settore (fondi distressed), non è giustificata dalla voglia di lavare i panni in casa (purché si lavino, non cospargano di lavanda). Allarma. Il lavoro di presa in carico e valorizzazione di quei crediti andati a male (npl) non può essere fatto in amore e accordo con chi li ha prodotti. Richiede, se non cattiveria, un’utile dialettica. Si tratta di capire se il rischio sarà remunerato dalla vendita, e in che tempi, il che comporta ragionevolezza circa il prezzo d’acquisto. Altrimenti nessun altro comprerà più npl italiani, innescando la fuga. Al contrario che con l’aumento di capitale non ci possono guadagnare sia la banca che vende che il fondo che compra (altrimenti non ci sarebbe stato bisogno del fondo).

5. Mentre i soldi investiti in capitale possono essere pazienti, quelli in crediti deteriorati fremono. Se entrambe finiscono in una comune operazione di “messa in sicurezza del sistema”, la mente corre alla Gepi (finanziaria pubblica con cui si “salvavano” industrie fallite, accumulando perdite). Ma la Gepi bancaria non salverebbe e non metterebbe in sicurezza nulla, rinvierebbe la resa dei conti, peggiorandola. Perché indebolirebbe chi deve rafforzarsi e allargarsi.

6. I fasti (e nefasti) di Borsa si lascino ai borsaioli. Il mercato azionario non è una bussola per governare. E neanche per operazioni strategiche.

Atlante è una buona cosa. Ma guai a sottovalutare questi problemi. Il pifferaio giulivo, se diventa montanaro, può andare incontro a una sorte beffarda.

Pubblicato da Libero

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