Economia

Ilva e Telecom

Ilva e Telecom

Ilva e Telecom, acciaio e telecomunicazioni, viaggiano su binari diversi e distanti. Non ci sono incroci, ma in qualche stazione i due convogli sembrano subire sorti opposte, eppure parallele. In comune hanno l’essere passati dal controllo statale a quello privato. Entrambe alla metà degli anni novanta. Quella di Telecom fu la peggiore privatizzazione possibile. Quella dell’Ilva la peggiore possibile sorte. In entrambe i casi la storia sembra essere un elastico, che ora schizza all’indietro. Non m’interessa, qui, riaprire l’annoso, e per molti aspetti ozioso, dibattito su pubblico e privato. Voglio solo mettere in evidenza l’abissale distanza fra parole e fatti.

Ora si trova in carcere l’ultimo esponente della famiglia Riva per cui era stata chiesta la custodia cautelare: Fabio, uno dei figli di Emilio, il fondatore. Cui toccò la sorte di morirci, agli arresti (domiciliari). Come si dice: la giustizia faccia il suo corso. Peccato, però, che per la questione più rilevante, vale a dire lo stabilimento di Taranto e l’intero capitolo ambientale, tale corso debba ancora iniziare, essendo aperta l’udienza preliminare. Sono finiti in carcere in tanti, uno ci ha lasciato la vita, ma ancora è da stabilirsi se meritano un processo. Quando lo si sarà stabilito dovrà iniziare. Fino alla fine varrà la presunzione d’innocenza. O vale solo se proclamata esplicitamente dal governo, per i propri membri? C’è un dettaglio, però: dal 3 luglio 2013 i proprietari hanno perso il loro bene, che è stato commissariato, dal governo. E’ aperta la procedura per la rinazionalizzazione. Si dice: è il solo modo per salvare lo stabilimento. Ma salvare da che? Prima era non solo operativo, a quel che sembra e secondo le parole dei governanti di allora, nel rispetto dei vincoli ambientali imposti dall’esecutivo, ma anche profittevole. Il disastro economico arriva dopo. Il processo deve ancora iniziare, ma l’esproprio è già avvenuto. Dicono i commissari che, se tutto va bene, la produzione tornerà profittevole (si sono persi 334 milioni nel 2014 e 250 quest’anno) e a 9 milioni di tonnellate (oggi se ne producono 5,2, ma nel 2012 erano 8,7) nel 2018. Come dire: si torna al punto dove lasciò la vecchia gestione. Che allora aveva il 7% del mercato, mentre ora si è scesi al 5. Per ottenere questo risultato si usano soldi della Cassa depositi e prestiti (quindi pubblici) e dei Riva, che, però, dovranno essere restituiti se i processi dovessero dare loro ragione. Quindi: si torna al punto di partenza, ma avendo bruciato ricchezza. Un successone, festeggiato solo dai concorrenti. Dicono i commissari che fra i settori più rilevanti ci sarà la fornitura verso fabbriche automobilistiche. Peccato che Fca abbia appena disdetto gli ordini, visto che non venivano eseguiti.

Telecom rischiò di vivere esperienze analoghe, ma gli esiti furono meno devastanti. All’opposto dell’Ilva, i privati che successivamente l’acquisirono non la fecero crescere, ma la spolparono. Poi arrivarono soci industriali e bancari. Privata è ancora oggi, benché malmessa. Eppure finanziamenti e piani per l’adeguamento tecnologico della rete di telecomunicazioni sembrano indirizzarsi verso soggetti diversi. Poco male, se il mercato fa altre scelte. Poco bene se le fa il governo, optando per soggetti di cui ha la proprietà, per il tramite della Cassa depositi e prestiti. Sempre quelle, che ora cambierà vertici. E sarebbe bello sapere con quale missione i nuovi sono chiamati all’opera.

In stazione i due treni si guardano da lontano, ma entrambe si chiedono se la storia non stia andando all’indietro. In qualche scompartimento, magari, stanno leggendo il libro di Carlo Cottarelli (“La lista della spesa”), colui che fu incaricato di suggerire come tagliare la spesa pubblica. Libro la cui trama poliziesca è avvincente, dato che si basa su un modello nuovo: il lettore sa subito chi è l’assassino, vede che tutti lo conoscono, ma non lo acchiappano mai. Libro traumatizzante per la propria semplicità. Sembra che il motto italico sia: cosa fare si sa, ma non si fa. Cottarelli, comunque, documenta che il problema non è solo la spesa direttamente statale, ma la presenza nell’economia di capitali e società pubbliche troppo numerose, prive di univocità, strategia e controlli. Problema che, come si vede in quella stazione, va aggravandosi. Il motto subisce una modifica: cosa fare si sa, ma si fa il contrario.

Pubblicato da Libero

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