Economia

Indici e nodi

Indici e nodi

Se si togliessero gli occhi dagli indici d’ascolto e s’impiegasse la testa per capire quelli economici, ci si accorgerebbe in fretta che c’è un limite al parlar di fuffa e che in cima ai nostri problemi non ci sono né i salotti televisivi né l’ipotesi che a vendicare gli sconfitti sia il compagno Garko. La politica, tutta, ha davanti a sé una stagione difficile. Ci sarà non solo bisogno di governarla, ma anche d’avere un’opposizione con la testa sulle spalle, non nel telecomando.
Chiedo scusa se lo rammento, ma le cose stanno andando come qui avevamo previsto. Mentre tutti parlavano di crisi la gran parte dei lavoratori italiani aumentavano il loro potere d’acquisto. Mentre era di moda descriverci come morti di fame, ci stavamo arricchendo. Valgano le cifre snocciolate in passato (sui dipendenti pubblici scrivemmo anche un libro), cui si aggiungono gli ultimi rilievi Istat: il reddito reale, medio, è aumentato dell’1% nel secondo trimestre 2009, rispetto al secondo trimestre 2008, il che comporta un aumento del 4,6 su base annua. Mentre il prodotto interno crolla, insomma, i redditi crescono. Si aggiunga la deflazione e si avrà la misura del beneficio per i salariati. Però i consumi non ripartono, perché lo spettacolo della crisi induce alla prudenza.
Il governo, per invogliare gli italiani a mettere mano al portafogli, tinge il cielo di rosa. Solo che adesso, nel mentre va in onda lo spettacolo della ripresa, arrivano al pettine nodi assai serrati. L’Ocse prevede l’aumento della disoccupazione, ed il nostro governo risponde che le cose stanno andando meglio del previsto. Parlano di cose diverse: da noi la disoccupazione è bassa, rispetto ad altri Paesi europei, per non parlare degli Usa, grazie agli ammortizzatori sociali, ma solo ora le aziende in difficoltà, specie quelle piccole, abbassano la serranda, licenziando.
Non possiamo pensare di tenere tutto nella bambagia, sovvenzionando posti di lavoro che non ci sono più, perché questo può essere un intervento di brevissimo periodo, che diventa economicamente insostenibile se si prolunga. Dobbiamo, allora, fare i conti con una competitività che diminuisce da venti anni, non da venti settimane, con un mercato interno anchilosato, colmo di rendite di posizione, con protezioni dissennate verso i garantiti e obliterazione degli interessi di chi è escluso, a cominciare dai giovani.
La contraddizione fra quel che si sostiene e quel che si vive, l’avere raccontato la miseria mentre cresceva la ricchezza disponibile e voler raccontare l’abbondanza nel mentre disoccupazione ed inflazione roderanno le riserve, rischia d’avere effetti politici dirompenti. Creerà un senso d’estraniazione, l’impressione d’essere nelle mani d’ebbri. E non ne trarrà vantaggio un’opposizione che, su queste cose, non dice una parola che sia una. A quel punto, statene sicuri, non ne caveremo le gambe facendo finta di niente, e continuando a parlare di puttanate (nel senso letterale del termine).

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