Economia

Istat e Ocse

Istat e Ocse

I dati dell’Ocse, che segnalano Italia e Francia come i Paesi che per primi e meglio stanno riprendendo la via dello sviluppo, avviandosi alla ripresa, sono giunti appena in tempo per consentire al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, di dare maggiore peso alla sua visione ottimistica della crisi. Secondo quei dati, oltre tutto, i primi a dare buoni sintomi di risveglio siamo noi, a seguire i francesi, gli altri sono ancora fermi.
Un bell’incoraggiamento, se non altro, specie se si pensa ai dati Istat, che li precedevano di poche ore e che evidenziano l’ulteriore arretramento del nostro prodotto interno lordo nel secondo trimestre 2009, nella misura dello 0,5% rispetto al trimestre precedente e del 6% tendenziale. E’ il quinto calo consecutivo su base trimestrale e tendenziale. Su base tendenziale è il peggior dato almeno dall’inizio della serie storica, nel 1980. L’anno in corso, pertanto, si chiuderà con un arretramento di almeno il 5,1%. Un dato impressionante.
Sul fatto che i misuratori dell’Ocse siano del tutto affidabili, e sul credere che quel dato avvalori una superiore capacità di prendere nelle vele i primi refoli di ripresa, non scommetterei più di tanto. Aiutano, comunque, il governo italiano a smentire quanti pretendono di denunciarne gli errori, e, anzi, consentono di dire che non sono stati commessi quelli degli altri Paesi. E questo è vero. Attestando 34 miliardi a presidio degli ammortizzatori sociali, mettendo a disposizione ulteriori 8 miliardi per la cassa integrazione, il governo italiano è riuscito in un doppio buon colpo: da una parte ha predisposto difese per una crisi ipoteticamente devastante, talché se quei soldi fossero stati tutti effettivamente spesi il paesaggio del giorno dopo sarebbe stato una specie di deserto post nucleare; dall’altra ha evitato di spendere soldi reali per difendere il sistema produttivo, mancando la possibilità di vedere gli sbocchi effettivi della crisi. In un certo senso, per quanto paradossale appaia, ci siamo giovati del nostro enorme debito pubblico ed abbiamo evitato gli errori di altri. Al tempo stesso, rassicurando i cittadini e le famiglie, non si è messa a rischio la pace sociale.
Quando Berlusconi si mostra stizzito per le critiche di chi lo invitava a fare di più, con questo intendendo “spendere di più”, non ha torto. Se quei dati Ocse, oltre ad incoraggiare, dovessero anche portare fortuna, tanto meglio. Il fatto è che il governo si confronta con le critiche che arrivano dall’opposizione, la quale avrebbe voluto una condotta di spesa simile a quella di altri Paesi occidentali, salvo poi, incoerentemente, denunciare il crescere del deficit, quindi del debito pubblico. Facile dimostrare che hanno torto. Quelle, però, non sono state le uniche critiche, giacché ve ne sono altre, praticamente prive di rappresentanza parlamentare, che andavano in direzione opposta: visto che la crisi non può essere combattuta con la spesa pubblica, visto che la riduzione di questa rimane uno degli obiettivi non solo imposti dall’Europa, ma saggi in sé, allora si deve mettere mano a riforme strutturali, a quel che serve per cambiare molte delle regole del nostro mercato interno, economico e del lavoro. Su questo fronte il governo non solo è rimasto indietro, approdando alla riforma dell’età pensionabile nel settore pubblico solo perché trascinato per la collottola, ma ha anche teorizzato l’opportunità di non fare niente. Il che non è lungimirante.
Se ne è accorto lo stesso Berlusconi che, difatti, non esclude di dover ragionare sugli squilibri interni del costo della vita, legando a questi l’andamento contrattuale, quindi delle retribuzioni. Sul punto ha ragione Renato Brunetta, quando avverte che l’andamento dei salari deve essere legato alla produttività, non al costo della vita, ma è anche vero che dove la vita è meno cara ci sono maggiori margini d’elasticità salariale, quindi più spazio per guadagnare produttività. Rinunciare a questa opportunità significa consumare nel presente una possibilità futura di sviluppo, che è, poi, il grande dramma del nostro mezzogiorno. A chiedere, anzi, a reclamare autonomia contrattuale, quindi di evadere dalla gabbia del salario unico e sempre uguale, dovrebbero essere proprio i meridionali, perché fuori da quella gabbia c’è ricchezza da conquistare. Berlusconi, appunto, sembra aver compreso la questione, certo aiutato dalla pressante polemica dell’alleato leghista.
Ma non basta. Il governo deve prepararsi all’autunno, che non sarà una stagione semplice ed indolore, cercando di dare organicità e coerenza alle proprie iniziative. Da quelle relative alla pubblica amministrazione e quelle che riguardano la scuola, da questa decisiva partita dei salari all’urgenza di sanare la malagiustizia, così via andando di tema in tema, si deve essere capaci di raccontare sempre la stessa storia, che non sia una favola: sono tutte cose che servono a ripartire, a rimettere l’Italia e gli italiani nelle condizioni di competere. In ciascuno di questi settori non dobbiamo conservare il passato, ma propiziare il futuro. Offrire a ciascuna iniziativa il valore aggiunto di un lavoro univoco è il compito della politica. Altrimenti le cose giuste, che pur si fanno, s’indeboliscono se presentate a spizzichi e bocconi, prive del fascino che si lega al cambiamento di passo. L’ottimismo, in quel coerente e promettente contesto, diventerebbe il dovere dei riformisti e degli innovatori, perdendo l’impronta negativa dei consolatori.

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