Il sentimento che accompagna i lavori dei tre giorni romani della Fao è il seguente: inutilità. Il traffico romano si è bloccato, complice la pioggia, e la capitale millenaria è stata solcata da un numero così elevato di sirene e cortei che s’è corso il serio rischio si scontrassero fra loro. Anche perché erano diretti negli
stessi posti: non alla Fao, ma nei luoghi più prestigiosi, i ristoranti più costosi, i palazzi più sontuosi, gli alberghi più stellati. Per carità, non è tenendo a stecchetto i capi di Stato o facendoli dormire sulle brande che si risolverà alcun problema, ma i pranzi per maratoneti dell’ingurgito non sembrano essere il luogo più adatto per meditare sui morsi della fame.
I dilemmi, poi, sono sempre gli stessi. Nelle comitive blindate, in perfetto stile Onu, non pochi erano i carnefici scorrazzanti, alcuni dei quali non bisognosi d’aiuto, altri certo non meritevoli. Che colpa ne hanno, i loro popoli? Molte, o nessuna, sta di fatto che gli aiuti si negoziano con non pochi dittatori, il che non agevola i loro oppositori. I riflettori si sono accesi in modo del tutto particolare per la delegazione iraniana, cui della fame non importa un accidente, semmai delle parole per condannare le democrazie ed augurarsi che siano cancellate. Si può collaborare? Sì, forse, ma solo con chi vuole abbatterli. Gli europei hanno parlato prevalentemente degli affari loro, il che è anche comprensibile avendo il vecchio continente, nonché mercato unico più ricco del globo, misure protezionistiche per tutelare le proprie produzioni agricole. Il presidente brasiliano ha provato a dire che oltre all’oro nero esiste anche quello verde, dei biocarburanti, ma l’hanno redarguito dal non parlare troppo a lungo, mentre gli egiziani gli hanno risposto che non si possono diminuire i cereali alimentari per aumentare quelli da mettere nei serbatoi. Peccato lui parlasse di canna da zucchero e che le terre coltivabili, in Brasile come in Africa, consentirebbero di far camminare le vetture portando a spesso gente più che satolla. Ma, come dire, gli amici dell’oro nero non simpatizzano con chi pensa si possa diminuirne il valore strategico ed economico.
Sono seguiti predicozzi di vario genere, tutti tesi a sostenere che quella contro la fame è una battaglia che non si può perdere. Il fatto è che lo si ripete da talmente tanti anni che si è dimostrato l’esatto contrario: sarà brutto, ma la si può perdere eccome. Intanto c’è chi ha sostenuto che a casa propria fa quello che gli pare, chi vorrebbe fare a pezzi la casa altrui, chi pretende di conservare i lussi di quella che la storia gli ha fatto trovare. In mezzo a tanto concentrato d’impotente realismo, per dimostrare il quale si sono mossi i capi quando sarebbero bastati i sottoportavoce, c’è chi ha voluto brillare per surrealismo: non saranno le leggi del mercato, non sarà il liberismo a risolvere il dramma della fame. Scusate, ma dove lo hanno visto, il libero mercato?