Economia

La frana

La frana

L’Italia che frana e s’allaga è uno spettacolo orrendo. C’è un modo per cambiare, per non rassegnarsi allo smottamento di fanghi e istituzioni. Ero a La Spezia, il giorno in cui un treno ha deragliato, una collina è venuta giù e delle persone sono morte. C’era l’apocalisse? No, pioveva. In continuazione, ma non in modo intenso. Quando la pioggia, non il diluvio, provoca quei disastri è segno che il terreno è esausto. Si deve, allora, sovvertire il modo in cui si agisce.

Per ogni dove, in Italia, è tutto proibito. Il delirio legislativo, regolamentare e autorizzativo, con intrighi delle competenze e occultamento delle responsabilità, ha una sola scusa: evitare abusivismi, scempi e pericoli. Ha prodotto, però, abusivismi, scempi e morti. Tutti sono pronti a scagliarsi contro i condoni, ma a parte che si fanno, uno appresso all’altro, sia perché c’è bisogno di cassa, sia perché molte delle cose condonate sarebbero dovute essere lecite fin dal principio, per il resto, per lo scempio, la colpa non è (solo) della politica, degli intrallazzi e del solito modo che gli italiani usano per non rispondere mai di niente: è (anche) della società (in)civile, di cui molta politica è fedele e degna espressione. In Liguria, nel modenese e per ogni dove, non c’è la natura che si ribella e vendica, non accade nulla di biblico. E’ il definitivo franare della furbizia beota, del prendere per sé, in attesa che qualcuno ci salvi dalla cretineria propria. A ciò s’è aggiunta la cultura dell’immobilismo verde, di un ambientalismo che non sa nulla dell’ambiente (come gli animalisti che vanno a dare da mangiare agli animali quando nevica, così li debilitano per sempre).

Abbiamo bisogno di un testo unico del territorio, valido in tutta Italia e senza che i campanili possano metterci becco (la loro competenza è amministrativa e locale). Serve sapere cosa è permesso e cosa no. Se mi muovo nel consentito nessuno mi rompa l’anima. Se ne fuoriesco l’opera deve essere abbattuta. Quelle terrazze nel vuoto, poggiate sul nulla, demoliscono la legalità finché restano in piedi. Poi ammazzano cadendo. Meglio cancellarle, in nome della legge. Ma, appunto, il primo passo consiste nel rendere accessibile, leggibile e rispettabile la legge. Lavoro di sei mesi, a esser lenti. Ma non basta, perché per restituire vita a un terreno che non assorbe più la pioggia, restituire rispetto ai fiumi, eseguire la manutenzione, indispensabile per non rendere dispendiosamente inutile qualsiasi opera, ci voglio soldi. Può essere un’occasione di ripresa, chiamando il capitale privato a partecipare. I soldi pubblici, come il capo della protezione civile, Franco Gabrielli, ha avvertito, sono pochi e sono finiti. Per la verità sono progressivamente diminuiti e sono stati ripetutamente spostati, dal governo, verso altri capitoli di spesa. Perché incapaci di tagliare la spesa corrente e ridotta al lumicino quella per investimenti, si svuota anche quella per le emergenze.

Guardate quel che succede a L’Aquila. Non la ridicola storia delle dimissioni con l’elastico, sport che diverte un sindaco oramai privo di credibilità e da sempre privo di competenza. Parlo della ricostruzione: costi che lievitano, lavori che non partono, popolazione che deperisce e va via. Tanto più che a chi emigra si liquida il valore della casa, sicché è la legge a incentivare l’abbandono. Così procedendo Aquila è sulla via della nuova Gibellina: costosa, nuova e morta. Le inchieste penali saranno solo l’autopsia di un corpo straziato.

Qui non c’è bisogno (solo) di ricostruire e rimettere in sicurezza, si deve riconcepire l’intervento sul territorio. Con il coraggio di cambiare anche il paesaggio. A Salò c’è un lungolago stupendo, ma se guardate le foto di qualche decennio addietro scoprite che non esisteva. Non avessero demolito e ricostruito allora oggi sarebbe impossibile. L’Italia è andata indietro.

Da noi il terreno e il paesaggio sono ricchezza. Solo politiche sbagliate li hanno trasformati in costi e trappole. Da lì possiamo risollevarci, usando gli errori per farne politiche di sviluppo. Chiamiamo il capitale privato a partecipare. Non quello delle singole famiglie (la politica degli sgravi per le ristrutturazioni non è sbagliata, ma è abominevole che poi si sospendano i rimborsi superiori a 4000 euro, perché questo mette in grave difficoltà chi s’è fidato dello Stato, le persone per bene), chiamiamo i soldi dei fondi che investono in edilizia e turismo. Il settore privato non è sinonimo di onestà, ma se privati mettono soldi propri sono assai poco disposti a tollerare creste e sprechi. I cofinanziamenti, quindi, devono basarsi su una doppia garanzia: lo Stato garantisce regole e tempi, i privati garantiscono soldi aggiuntivi. E devono portare a doppi benefici: lo Stato salva il territorio e risparmia sui soccorsi, i privati acquisiscono diritti di sfruttamento alberghiero e turistico. Una sinergia virtuosa, che toglie lavoro ai magistrati e lo dà a ristoratori e albergatori. Gli stessi beni privati che si trovano in abbandono (dimore storiche, ville, fattorie, etc.) potrebbero essere conferite e offerte a cinquantennale sfruttamento altrui, con beneficio (posticipato) degli stessi proprietari. In tale politica potrebbero affluire ingenti fondi europei.

Non è questa la sede (e lo spazio) per i dettagli, che, naturalmente, sono importanti. Ma l’evidenza è che l’Italia delle frane e delle alluvioni, dei soccorsi e degli interventi che non finiscono mai, delle regole assurde e degli abusivismi furbeschi, è destinata solo ad autodistruggersi.

Pubblicato da Libero

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