Dice Paolo De Coppi, che lavorando a Boston ha scoperto la presenza di cellule staminali nel liquido amniotico: “se fossi restato in Italia sarei ancora un piccolo pediatra”.
Non solo, se avesse deciso di dedicarsi alla carriera universitaria sarebbe ancora un reggicoda e tale resterebbe ancora per molti anni, fino a quando, alla vigilia dei sessanta anni, si sarebbe visto assumere in una specie di sanatoria per precari ricercatori, finanziata con soldi che lungi dal dirigersi verso la ricerca scientifica ne avrebbero edificato la tomba.
Spesso raccontiamo a noi stessi la grande balla secondo la quale i problemi di ricchezza collettiva sono creati dall’aprirsi della concorrenza nel mondo e, quindi, dall’attrazione esercitata da quei mercati la cui manodopera è assai meno costosa, ci raccontiamo, insomma, che perdiamo delle sfide perché non ci rassegnamo a pagare meno i nostri lavoratori. Invece le perdiamo perché diventiamo sempre più ignoranti, meno capaci di innovare, con l’Università e la ricerca inzeppata da personale d’età avanzata e con meriti scientifici sconosciuti ai più. Si leggano i dati pubblicati dal Corriere della Sera, in un interessante articolo di Rizzo e Stella: i docenti universitari con meno di trentacinque anni sono lo 0,05%, mentre quelli con più di sessantacinque il 30,3. In Italia puoi anche essere un giovane geniale, ma è più facile tu vinca alla lotteria che non finisca in cattedra, mentre i fondi della ricerca non serviranno per scoprire cose nuove, ma per sistemare personale vecchio, con il risultato che i ricercatori italiani vanno dove il mercato li premia e li attira, come è giusto che sia.
Questo meccanismo moltiplica l’impoverimento collettivo e lo ingigantisce nella proiezione futura. Ci metteremo anni ed anni per liberarci di questo modo di concepire l’Università, e quel tempo sarà tutto vantaggio per i nostri concorrenti, che non sono gli operai sottopagati della campagna cinese, ma gli ingegneri dello stesso Paese, gli informatici indiani, i giovani selezionati in tutto il mondo, cresciuti nella competizione e nella meritocrazia, pronti a battere i nostri pargoli, magari figli di professori universitari il cui ultimo scritto risale agli anni del mai tenuto concorso. C’è un modo per uscirne? C’è, ed è la demolizione immediata di quel che non funziona, l’abolizione del valore legale del titolo di studio, l’agevolazione ai capitali privati investiti nella ricerca applicata alla produzione. C’è la volontà politica di farlo? Sarebbe già molto se ce ne fosse la consapevolezza.