Economia

La piattaforma digitale

La piattaforma digitale

Alcune anime belle si affliggono (o mostrano di affliggersi) perché il monopolista delle telecomunicazioni, ovvero il Gruppo Stet, ha già messo piede nel settore della televisione a pagamento.

Sono gli stessi che trovavano oltremodo disdicevole, e nocivo della concorrenza, il fatto che progredisse il lavoro di cablatura delle città (programma Socrate), il quale lavoro era ed è la base di partenza per il lavoro che la società Stream, sempre del Gruppo Stet, intende svolgere. Ci proponiamo di dimostrare che tali anime belle non compensano in beltà la debolezza, o la malafede, del loro ragionamento.

Al fondo di tale ragionamento, difatti, starebbe la necessità di aprire il mercato italiano ad una concorrenza reale e dinamica. E noi condividiamo in pieno un tale obiettivo. Con una postilla : crediamo, noi, di averlo perseguito con coerenza, mentre chi si fa bello parlando di liberismo e concorrenza, alla prova dei fatti, si è collocato sulla sponda opposta.

Il libero mercato, tanto per cominciare, è l’arena in cui gli spiriti animali del capitalismo si contendono i brani di carne. Così come la rivoluzione, anche il capitalismo non è una cena di gala. Di certo, il libero mercato non è il luogo in cui la politica, ed il legislatore, pretendono di regolare tutto e di limitare la crescita dei gruppi privati. Meno che meno è il luogo in cui il legislatore può permettersi il lusso di condurre delle battaglie contro questo o quel gruppo. Naturalmente esistono, e sono utili, le leggi antitrust, e tali leggi servono proprio a limitare la tendenza onnivora degli spiriti animali. Ma sono utili, le leggi antitrust, solo a condizione che servano a favorire lo sviluppo di altri soggetti. Non lo sono, invece, mai, se divengono degli ostacoli allo sviluppo.

Allora, è bene che si sappia che la crescita della televisione a pagamento, mediante l’uso di sistemi digitali, quindi via cavo o via satellite (delle frequenze “terrestri” parleremo dopo), ha trovato, nel mondo capitalistico, alimento dal fatto che gli operatori di questo settore potevano anche offrire servizi di telecomunicazione. Cioè : chi portava gli allacci per far vedere la televisione poteva anche far fare le telefonate, oltre, ovviamente, a tutti gli altri servizi a valore aggiunto. Al tempo stesso, nel mondo del capitalismo regolato da leggi antitrust, agli operatori di telecomunicazione era proibito, per un certo numero di anni, offrire servizi televisivi.

La ragione di questa asimmetricità, per cui era consentito agli uni quello che era proibito agli altri, stanno nel fatto che gli operatori del settore televisivo sono infinitamente più deboli di quelli che operano nelle telecomunicazioni. I quali ultimi, del resto, vengono da una storia di monopolio legale, o di fatto. A chi si è arricchito sfruttando i vantaggi del monopolio, dunque, si impedisce di occupare, utilizzando la ricchezza così accumulata, settori nuovi, in cui altri concorrenti possono essere interessati ad entrare. Al tempo stesso, operando in questo modo, si favorisce lo sviluppo di nuovi operatori di telecomunicazioni, rompendo pertanto anche i monopoli in tale settore (monopoli che resistevano anche negli Stati Uniti).

Tradotto in italiano, tale ragionamento, avrebbe significato che gli imprenditori presenti nel settore televisivo avrebbero potuto, e forse dovuto, impegnarsi in quello delle telecomunicazioni. Mentre alla Stet sarebbe stato proibito fare altrettanto nel settore televisivo. Purtroppo qui, in Italia, si è dovuto fare i conti con due grandi contraddizioni.

La prima è che tutto il dibattito legislativo si è concentrato nello sforzo di tagliare le unghie agli imprenditori televisivi, e segnatamente al principale, cercando di comprimerne la crescita. Ad un certo punto, al colmo del delirio, si è giunti ad ipotizzare che si potesse mettere un tetto, per legge, alla crescita del suo fatturato. E tutto questo avveniva mentre le telecomunicazioni, in barba alle stesse direttive europee, venivano mantenute nel più rigido e plumbeo monopolio.

La seconda contraddizione è che il proprietario del monopolista delle telecomunicazioni è lo stesso proprietario del principale gruppo televisivo italiano, cioè la Rai. Il proprietario di entrambe è lo Stato.

Le anime belle, che oggi si addolorano, hanno messo a disposizione tutta la loro moralità, e tutta la profondità del loro pensiero perché una simile situazione si protraesse all’infinito. Di che si lamentano, oggi, non è, quindi, molto chiaro. Esse hanno di fronte l’Italia che hanno voluto e contribuito a costruire. Esse hanno voluto suonare inni alla concorrenza, nel medesimo momento e nella medesima sede in cui suonavano marce funebri per i concorrenti. Il loro, quindi, più che un caso politico, è un caso clinico. Archiviamolo come tale.

Adesso, però, in barba a tante chiacchiere, in barba a quel di cui ancora il Parlamento discute, ed in barba a quel che gli italiani, con i referendum, hanno mostrato di volere, ci troviamo alle prese con un’imprenditoria televisiva debole nei nuovi mercati e debole nella competizione internazionale; e con un monopolista delle telecomunicazioni che, dentro i confini nazionali, è ancora fortissimo e ricchissimo. Che si fa?

Intanto c’è una cosa che non possiamo fare : non possiamo varare, come gli altri, una legislazione asimmetrica. Non possiamo farlo perché siamo troppo in ritardo. Gli inglesi, per esempio, lo hanno fatto in modo da farne sparire gli effetti in coincidenza con le scadenze europee, e tali scadenze prevedono che entro il primo gennaio 1998 ogni barriera scompaia. Quindi, a meno di non volere uscire dall’Unione Europea, non possiamo certo varare una legislazione asimmetrica che duri solo sei mesi.

A questo punto, allora, al contrario di quel che molti pensano, associandosi alle anime belle, il nostro interesse nazionale è proprio quello che il Gruppo Stet vada avanti nel programma di numerizzazione degli allacci, o di cablatura che dir si voglia. In questo modo c’è da sperare che almeno una parte dei profitti del monopolista si riversino in investimenti, che costituiscono un vantaggio per la collettività.

La cosa peggiore, infatti, sarebbe che tali profitti, rinunciando agli investimenti, si trasformino, in virtù di un’ideologia privatizzatrice da idioti, in vantaggi per gli azionisti, anzi, in vantaggi tali da rendere allettante l’acquisto delle azioni. Se così fosse, infatti, il sudore e le lacrime dei clienti italiani (ovvero di noi tutti che paghiamo la bolletta) si trasformerebbero in gocce di rugiada per gli investitori, magari banche e stranieri (i quali stranieri vivono in paesi ove le tariffe telefoniche sono assai più basse di quelle italiane). Con espressione colorita, si dice : cornuti e mazziati.

Il procedere del programma di numerizzazione, del resto, non costituisce una ulteriore barriera all’apertura del mercato alla concorrenza. Sono le normative europee, al di là del buon senso e della buona volontà nazionali, a garantire la possibilità di accesso alle reti pubbliche per chiunque abbia servizi da offrire. L’operatore nazionale di telecomunicazioni, quindi, non potrà mai impedire l’uso della sua stessa rete da parte di un concorrente. Mentre è evidente che un incremento di qualità di detta rete di riversa in un incremento di qualità di tutti i servizi offerti.

Semmai, anziché fare barricate di cartone, sarà il caso di concentrare l’attenzione sul rispetto della normativa europea, e sul drastico abbassamento delle tariffe per l’interconnessione, ovvero per l’accesso alla rete pubblica. Anziché dilettarsi a moltiplicare leggi e codicilli, sarebbe ora che ci si dedicasse a far rispettare le norme esistenti.

Posto questo quadro, non si riesce a comprendere cosa ci sia di scandaloso, o di sconveniente, nella realizzazione di una casa comune del digitale, ove, per propiziare lo sviluppo di questo tipo di trasmissioni (anche) televisive, confluiscano le esperienze e gli sforzi di Stet, Mediaset e Rai. Oltre a quelli di chi segnalasse la propria esistenza ed il proprio interesse. E’ scandaloso, semmai, che non ci si voglia accorgere che la dimensione del mercato del quale stiamo parlando non è nazionale, ma sovranazionale. E che, quindi, continuare a volere parlare di un mercato nazionale e dialettale, nel quale si scontrino concorrenti vernacolari, è segno di una cecità pressoché assoluta.

Altro che bolsa e stanca retorica sul “valore” politico e culturale delle televisioni locali. Sono le nostre televisioni nazionali ad essere troppo piccole rispetto al mercato nel quale devono vivere.

Un’ultima osservazione. Non sta scritto da nessuna parte che la televisione digitale debba viaggiare per forza sul cavo o sul satellite. Non sappiamo chi abbia convinto di questo l’italico legislatore, ma è una balla. La televisione digitale può viaggiare anche sulle reti che utilizzano le frequenze “terrestri”. Quelle, per intenderci, attualmente in uso alle televisioni. Il punto è questo : digitalizzando quelle reti, si moltiplicano gli spazi disponibili : dove, oggi, viene trasmesso un programma televisivo, domani se ne potranno trasmettere cinque o sei.

Ora, come volete che un simile progresso tecnologico, che sarebbe una ricchezza per tutti, venga perseguito in un paese in cui il governante (peraltro barando su una sentenza della Corte Costituzionale) ancora sostiene di volere scrivere in una legge che nessuno può avere più di due reti televisive?

E’ il solito dramma dei neofiti : statalisti nell’anima e nella pratica, si improvvisano liberisti e immaginano che i concorrenti si creino per decreto. Pensano : lasciamo spazi liberi e nasceranno concorrenti. Ma quando mai si è vista una cosa simile? E’ la nascita di concorrenti che preme perché vengano liberati gli spazi.

Si ha l’impressione che, essendosi ispirati ad una cultura bulgara, si siano persi il meglio delle riflessioni del barbuto di Treviri, e si siano infognati in una vulgata marxista da barbutos cubani. Hasta la victoria, siempre !

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