Perché la Rai e il fisco litigano su quanti soldi gli italiani hanno versato per il canone televisivo? La cosa è meno scontata di quel che sembra e gli aspetti contabili sono i meno interessanti. Nonostante la Rai abbia ancora un “ufficio acquisizione abbonamenti” (con apposito dirigente e dipendenti, che si aggiungono ai già numerosi colleghi) l’abbonamento alla televisione pubblica non esiste più da molti anni, per la precisione dal 1991. Abbonarsi è una libera scelta, come comprare questo quotidiano e leggere quel che c’è scritto. Se così fosse, sono ragionevolmente certo che solo una minoranza d’italiani si recherebbe, giuliva, a versare l’obolo per la Rai. Ma il canone è una tassa, che si è tenuti a pagare in quanto possessori di un televisore (o di altro sistema per riceve immagini televisive, che, nell’era del digitale, è definizione potentemente ridicola, visto che tutti i terminali forniti di schermo possono farlo, telefoni compresi).
I soldi si versano al fisco, che, nel Bollettino del Dipartimento delle Finanze afferma essere mancati, nei primi due mesi dell’anno, la bellezza di 562 milioni. Il 37,5% in meno, posto che nel 2010 s’incassarono 1,5 miliardi. A questi si devono aggiungere gli altri 500 milioni, che la Corte dei Conti stima essere l’evasione media di questa tassa. Dato che a rimetterci sono le casse pubbliche, perché la Rai si ribella e contesta quelle cifre? Perché questa anomala e detestabile tassa è, in realtà, una partita di giro, giacché gli incassi vanno a costituire il 50% del bilancio Rai, autorizzando la società ad incassare altrettanto da pubblicità e altri introiti. Quindi: noi non paghiamo più la Rai, sottoscrivendo un abbonamento, ma la finanziamo essendo obbligati a pagare una tassa. Non sta scritto da nessuna parte che lo Stato sia obbligato a riversare il totale della raccolta, ma così si fa. Il Tesoro, però, neanche vuole rimetterci, e se cala il gettito fa calare anche il finanziamento.
Dopo la lite di qualche ora il direttore generale della Rai ha ritenuto di chiudere l’incidente affermando che s’è solo trattato di una diversità di conteggi. Alla faccia! Se le Finanze fanno conti commettendo errori così marchiani, dopo avere acconsentito, oltre tutto, ad un aumento del canone, stiamo freschi. Ma la cosa più singolare è che il direttore di una società contesta, dando dell’analfabeta, l’ufficio contabilità della proprietà. E’ come dire che il proprietario e l’amministratore di una società hanno numeri diversi sul fatturato. Impossibile convivere, uno dei due è fuori di testa.
Tutto questo è avvenuto subito all’indomani di una certo non piacevole osservazione della Corte dei Conti: i bilanci Rai sono fuori controllo e l’azienda naviga verso il disastro. Personalmente non ho una cieca fiducia nelle analisi finanziarie di quel collegio di giudici, ma la risposta del direttore generale (io non c’entro, la Corte ha ragione ma si riferisce all’amministrazione precedente) è del tutto insoddisfacente. La società è sempre quella, e se è vero che i predecessori hanno fatto un guaio è bene che li denuncino. L’impressione, piuttosto, è che il dissesto sia una costante.
Ulteriore elemento inquietante è che si discuta di soldi senza mai discutere di corrispettivi. Cos’è il servizio pubblico? In che consiste? Perché la Rai deve essere finanziata con una tassa mentre i concorrenti no? E, si badi, mica credo che vada estesa la sovvenzione, semmai il contrario: deve essere privatizzata la Rai e cancellata la tassa. Basta con il canone, che, come abbiamo visto, nel nome e nelle modalità d’incasso, è un imbroglio in sé. La Rai è una televisione commerciale a proprietà pubblica, il cui bilancio è per metà a carico del contribuente. Un mostro. Da oggi s’è aggiunta un’ulteriore anomalia: le addizioni danno risultati differenti nel breve tragitto che passa dall’incasso dei soldi al loro riversamento verso viale Mazzini. Una ragione in più per farla finita.